lunedì 8 ottobre 2012

GLI INVISIBILI



Non dormono nelle stazioni ferroviarie, non vanno a mendicare la minestra alla Caritas, non si rivestono di stracci ma, come i barboni, sono invisibili.
Sono i magistrati che guidano e sorvegliano l’amministrazione penitenziaria italiana.
Si parla poco di loro, anzi quasi niente eppure il loro ruolo nelle pagine più oscure ed ignobili della guerra politica italiana è stato – e continua ad essere – rilevante.
Non si può esprimere un giudizio sulla complicità della magistratura italiana con il potere politico e militare nella guerra civile degli anni Sessanta e Settanta. Se non si illumina insieme a quello della magistratura inquirente e giudicante l’operato di quella penitenziaria e di sorveglianza.

Se il carcere italiano è una delle vergogne del Paese, lo si deve al fatto che i controllati, i vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sono i controllori di sé stessi perché come magistrati godono della complicità e del sostegno dei loro colleghi inquirenti, giudicanti e di sorveglianza.
Se giudichiamo la magistratura italiana sotto il profilo della omertà che la distingue, più che di ordine giudiziario dovremmo parlare di associazione giudiziaria che nulla ha da invidiare a quelle che compongono la galassia della criminalità organizzata.

Certo, il Consiglio superiore della magistratura interviene contro quei magistrati che si macchiano di reati comuni, ma se questi ultimi attengono alla sfera politica scatta immediata ed inesorabile la protezione e la copertura che si ritengono necessarie per proteggere non tanto il decoro ed il prestigio dell’ordine quanto le responsabilità dello stesso sostegno al potere politico da cui si vanta sulla stampa di essere indipendente.
I misteri del carcere non sono mai stati affrontati né chiariti sul piano giudiziario, e tanto meno, su quello storico e giornalistico.
Eppure, ad esempio, sarebbe di estremo interesse sapere perché i magistrati del Dap, in concorso con quelli responsabili della inchiesta a Torino sulle Brigate rosse, decisero di richiudere Renato Curcio, subito dopo il suo arresto avvenuto l’8 settembre 2974, nel carcere di Casale Monferrato, poco più che un mandamentale dove, al massimo, ci portavano i ladri di polli.
Ma Curcio, all’epoca, sera considerato il capo delle Brigate rosse e come tale, secondo logica, avrebbe dovuto essere rinchiuso in un istituto di pena sicuro, da dove non avrebbe potuto evadere.
Viceversa, come previsto, pochi mesi dopo l’arresto Renato Curcio scappa con l’aiuto di Mara Cagol e di alcuni suoi compagni.
Chi voleva - e per quali ragioni – che Renato Curcio Tornasse libero?
La domanda è sempre rimasta senza risposta.
Dopo che la rivista dei “neofascisti” di Questura e di servizio, “Quex”, accusa Ermanno Buzzi, accusato di concorso nella strage di piazza della Loggia a Brescia il 28 maggio 1974, il Dap decide
che deve essere trasferito da carcere di Brescia a quello di Novara dove sono rinchiusi i cosiddetti estremisti di destra.
Ermanno Buzzi ha paura di morire, e non lo nasconde.
In tanti si prodigano perché l’ordine di trasferimento venga revocato, ma ogni intervento è inutile perché i magistrati del Dap non recedono dalla loro decisione.
Buzzi viene ucciso il 13 aprile 1981, nel cortile dell’aria del carcere di Novara, dal poliziotto ausiliario Mario Tuti e da Pierluigi Concutelli, istigato dal primo.
Perché qualcuno al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, a Roma, aveva deciso che Ermanno Buzzi doveva morire?
La domanda è rimasta senza risposta.

Nel mese di maggio del 1982, a Roma, la polizia arresta alcuni appartenenti alla disciolta “Avanguardia nazionale”, fra i quali Carmine Palladino che, unico fra gli imprigionati, mostra segni di cedimento.
Puntuale e mortale giunge la decisione dei magistrati del Dap che dispongono il trasferimento di Palladino nel carcere di Novara dove verrà ucciso il 9 agosto 1982, da una decina di “neofascisti” fra i quali Pierluigi Concutelli, nel cortile dell’aria.
Chi ha deciso che l’ “anello debole” fra gli arrestati di “Avanguardia nazionale”, Carmine Palladino, doveva morire?
La domanda è rimasta senza risposta.

Il ruolo dell’amministrazione penitenziaria, ai suoi più alti livelli, nel caso di Ciro Cirillo, l’assessore democristiano sequestrato a Napoli dalle Brigate rosse e liberato per l’intervento della Nuova camorra organizzata diretta da Raffaele Cutolo, è noto.
E’ singolare però che anche in questo caso dove si è apertamente parlato di trasferimenti richiesti da Cutolo, seguiti da omicidi all’interno di istituti di pena compiuti dai suoi affiliati, i magistrati del Dap sono riusciti a restare al di fuori del processo. Eppure solo loro avevano l’autorità per disporre i trasferimenti richiesti dal capo della Nco.
Abbiamo quindi dinanzi a noi una sacca di impunità resa possibile dall’incapacità, ma forse sarebbe meglio dire volontà, dei magistrati inquirenti di non indagare sui loro colleghi penitenziari che si ritrovano in questo modo liberi di agire a loro piacimento decidendo della vita e della morte di detenuti che, con motivazioni varie, sono scomodi per lo Stato e per il regime.
Non c’è solo la morte all’interno degli istituti di pena italiani. I magistrati penitenziari sanno anche elargire vita, e vita comoda, a quanti hanno saputo guadagnarsi la riconoscenza dello Stato.
E’ il caso di Mario Moretti, esemplare per denunciare l’ipocrisia della magistratura italiana e la sua volontaria compartecipazione ai giochi del potere politico.
Moretti è il nominale capo delle Brigate rosse, ma è soprattutto l’uomo che ha materialmente sparato su Aldo Moro, rinchiuso nel portabagagli di una Renault rossa il 9 maggio 1978.
Il regime politico ha dedicato la giornata della memoria alle vittime del “terrorismo” ad Aldo Moro, celebrandola proprio il 9 maggio di ogni anno.
Contestualmente ha però concesso a Mario moretti lo status di dirigente del carcere di Opera, affidandolo alle cure del direttore Aldo Fabozzi che tanta attenzione amorevole ha avuto nei confronti dell’ormai potentissimo detenuto.
Ristretto, come si conviene ad un “vip”, nel centro clinico del carcere benché godesse di ottima salute, scortato da un brigadiere e tre agenti quando si recava a colloquio, inserito fra i dirigenti della “Lombardia informatica”, insieme all’ex confidente del Sid Vito Messana, Mario Moretti ottiene il primo premesso premio nel 1993, a distanza di dodici anni dal suo arresto; due anni più tardi, nel 1995, è rimesso al lavoro esterno, nel 1997 ottiene infine la semi-libertà.
La motivazione dei benefici di legge concessi a Mario Moretti è quella che non è pentito, ma dissociato, non è ricreduti, non è ravveduto ma ha ammesso, bontà sua, nel 1993 che la “lotta armata” è fallita.
Non è una barzelletta oscena, ma la motivazione con la quale il tribunale di sorveglianza di Milano ha concesso la semilibertà a Mario Moretti.

Se all’interno del carcere di Opera Moretti era la “pupilla” degli occhi di Aldo Fabozzi, di cui certamente avrà un grato ricordo, il Tribunale di sorveglianza di Milano si pone alla pari dei magistrati del Dap che, da parte loro, si avvalgono della complicità dei giudici che hanno indagato sul conto di Mario Moretti per il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro e della sua scorta, esprimendo parere favorevole alla concessione dei benefici di legge.
Non è una storia italiana. E’ una storia di un’Italia ignobile politica, penitenziaria e giudiziaria, che premia un infame che ha tradito morti e vivi per avere vita, benefici e privilegi.
Se qualcuno non lo ha compreso, in una battaglia politica contro uno Stato ed un regime, è infame che tace o accusa i suoi per compiacere la magistratura ottenendo il riconoscimento di “pentito” o di “dissociato”.
Mario Moretti è l’infame che tace pagato per recitare come un pappagallo il ritornello che “dietro le Brigate rosse c’erano solo le brigate rosse”.
Aldo Moro ha fallito anche in morte, quando ha profetizzato che il suo sangue sarebbe ricaduto sulla testa dei suoi compagni di partito.
Invece, con la sua morte Francesco Cossiga e Giulio Andreotti hanno conosciuto una sfolgorante carriera politica.
E sul suo sangue Mario Moretti ha fondato la sua fortuna di direttore onorario del carcere di Opera, temuto, potente, intoccabile, che lavora da 22 anni come dirigente della “Lombardia informatica” ed ha maturato ormai la pensione che Renato Curcio, altro fallito rivoluzionario, invoca allo Stato per il lavoro svolto in carcere.
Ma Renato Curcio non ha ammazzato Aldo Moro, quindi che pretende? Che lo Stato gli riconosca la pensione?
All’interno del carcere italiano c’è chi muore, c’è chi ha vita precaria, chi vive bene, chi vive meglio, dipende dalla magistratura nel suo complesso, quella inquirente, giudicante, di sorveglianza e penitenziaria.
E quest’ultima è quella che è sempre riuscita a restare fuori dalle inchieste, dai processi, dalla luce dei riflettori mediatici perché capace di rendersi invisibile, di lavorare nell’ombra pronta a scaricare ogni responsabilità sui subalterni, disposta sempre ad esaurire ogni desiderio che provenga dal potere politico o dai suoi apparati di sicurezza.
E’ storia, questa della magistratura penitenziaria, sulla quale ritorneremo ancora perché la verità passa anche per le oscure attività del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e dei suoi magistrati.
E’ storia che deve essere conosciuta da quanti aspirano ad avere la verità sulla guerra politica italiana nella quale l’amministrazione penitenziaria ha ricoperto un ruolo importante, in certi casi decisivo.
Non è storia di sole vittorie, fatta di morti ammazzati, di pentiti e di dissociati, di ricreduti e privilegiati, ma anche di fallimenti, come dimostra il fatto che a scriverla è chi con i Fabozzi ed i Siciliano, i Caselli, i Coiro, gli Amato, i Tamburino, ha oltre 33 anni di scontri, condotti a testa alta.
E la scriveremo da carcere di Opera senza chiedere il premesso a Mario Moretti e ad Aldo Fabozzi, ai loro colleghi e ai servizi segreti che tanto contano sul loro apporto, oggi come ieri e come sempre.

Vincenzo Vinciguerra
(Opera, 16 settembre 2012)


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