…si conosce al cattivo tempo, recita un detto, appunto,
marinaro. Dal che seguono due corollari: uno, che al cattivo tempo si conosce
anche il mal marinaio; due, che in tempo di bonaccia non è possibile
distinguerli.
Accade da duemila anni. La storia della Fede, cioè della
traccia delle orme del Cristo per le nazioni del mondo, non racconta altro. Le
innumerevoli “Storie della Chiesa” si concentrano sulle gesta (e malefatte)
della gerarchia, e quelle “del Cristianesimo”, su una pletora di fatti e
misfatti ma circa un termine perennemente indefinito perchè indefinibile, e del
quale non si farà uso qui.
Gesù Redentore promise pace, ma interiore. Esteriormente disse
che senza portare la croce non è possibile seguirlo. Paradosso? Certamente. Ma
la vita di fede non è fatta di altro.
La primissima persecuzione si scatenò a Gerusalemme, come
raccontano gli Atti. La seconda a Roma, senza che si registrasse un solo caso
di apostasia. E così via fino al 165, che vide testimonio Giustino Martire.
Seguirono quasi 40 anni di tregua, sufficienti a far
rilassare la strizza permanente sperimentata nelle catacombe. Cosicché quando Settimio
Severo promulgò l’editto di persecuzione nel 202, vennero fuori a frotte i
cattivi marinai: i Lapsi.
Si dividevano nettamente in tre categorie: i Thurificati, che bruciavano incenso alle
statue dell’imperatore; i Sacrificati, che
tornavano a fare quello che facevano prima della conversione, cioè offrire
vittime sugli altari pagani; e i Libellatici,
cioè i furbi che sobornavano i messi imperiali in cambio di un certificato di
apostasia senza aver commesso il fatto. È di questa persecuzione il martirio di
Perpetua e Felicita a Cartagine.
Tornata la bonaccia, molti di costoro esprimevano il
desiderio di riimbarcarsi, ma cozzarono contro l’indignazione di chi era
rimasto fedele rischiando bestie, tortura e altre forme di esecuzione capitale.
Si parlava di ribattesimo, ma Roma (non il Vaticano, che data dal 1929) non ne
volle sapere, e mise su la disciplina necessaria per rettificare la situazione.
La storia dei libri di testo non racconta che i fedeli
non aspettarono la bonaccia per continuare ad evangelizzare. Mentre Settimio
Severo li perseguitava in Occidente, sorse il primo regno cristiano della
storia: Edessa, in Siria, con il toparca Abgar IX. Una tradizione tra storia e
leggenda racconta che il suo antenato Abgar V Ukkama (il Nero) avesse scritto a
Gesù di Nazareth, implorandolo di andare a curarlo di una grave malattia. Gesù
gli fece rispondere, promettendo che un suo discepolo sarebbe andato dopo il
compimento della sua missione sulla terra.
Costui fu Addai, discepolo di Tommaso e primo
evangelizzatore di Edessa, conosciuta come “città benedetta” per quasi mille
anni.
Sotto Diocleziano sorse in Oriente un secondo regno
cristiano: l’Armenia di Tiridate III, nel 301. Il che pone la cristianizzazione
di Roma da Teodosio nel 380 al terzo posto.
I siriani non solo evangelizzarono, ma anche istruirono, inventando
alfabeti nazionali a partire dal siriaco, lingua franca di allora. A costoro si
aggiunsero missionari persiani.
Tra il quarto e il quindicesimo secolo, migliaia di
comunità cristiane sorsero per tutto l’immenso continente asiatico: I Keraiti,
Uighur, Naiman e Merkiti erano tutti o quasi nazioni cristiane verso la fine
del XI secolo. Una nuora Keraita di Genghiz Khan, la principessa Sorghaghtani,
fu madre cristiana di tre imperatori: Möngke, Gran Khan dell’impero mongolo;
Kublai, Gran Khan della dinastia Yuan in Cina al
tempo di Marco Polo; e Hulagu, Ilkhan di Persia,
Turchia, Georgia e Armenia.
Nel museo cinese di Bei Lin campeggia la Stele
Nestoriana, eretta nel 781, sepolta nel 845 e ritrovata nel 1625. In caratteri
cinesi e siriaci, celebra l’arrivo della “luminosa dottrina proveniente da
Da-Qin”, cioè l’Occidente cristiano, nel 635, tre anni dopo la morte di
Maometto in Arabia. Il missionario siriano fu un certo Ruben, cinesizzato in
A-lo-pen.
I nestoriani, eredi dell’eresia condannata ad Efeso nel
431, evangelizzavano senza il sostegno di Roma. Ma “come il tralcio non può da
sé portare frutto, se non rimane unito alla vite, così nemmeno voi, se non
rimanete in me”.
All’arrivo in Cina di Alopen, la tempesta dell’Islam era già partita
dall’Arabia verso i quattro punti cardinali, e chi ne veniva colto, fosse lui
asiatico, europeo o africano, aveva da affrontare un cattivo tempo diverso, ma
non meno efficace di quello delle persecuzioni romane.
“Islam” non vuol dire “pace” come vari imam propongono al
Papa di dichiarare, ma “sottomissione”: o spontanea, il che facilita
l’assimilazione in una società soggetta alla legge coranica; o forzata, per
sfuggire la morte violenta o un’oppressione fiscale, sociale, etnica eccetera
in continuo aumento. Seguono alcuni esempi.
Il 10 settembre 2013, nella cattedrale greco-cattolica di
Damasco, il Patriarca melkita Gregorio III Halam celebrava i funerali di Mikhael
Taalab, il cugino Antoun e il nipote Sarkis el Zakhm. Erano stati sorpresi tre
giorni prima a casa da una pattuglia di jihadisti. Alla proposizione “Islam o
morte” il 19enne Sarkis rispose: “Sono cristiano, e se mi vuoi uccidere per
questo, fa pure”. Fu accontentato, e per buona misura vennero abbattuti anche il
nonno e lo zio. Lo stesso avvenne dopo tutte le battaglie dove un esercito
musulmano ne sconfisse uno cristiano. C’è solo l’imbarazzo della scelta.
La conversione all’Islam porta vantaggi, anche postumi.
Pochi sanno che il comandante dell’ala sinistra della flotta ottomana a
Lepanto, il 7 ottobre del 1571, fu un rinnegato calabrese, islamizzato da Luca
Galeni in Uluch Ali (1519-1587). Nelle coste italiane era temutissimo come
Occhiali il Tignoso, per aver contratto la scabbia durante 14 anni al remo su
una galera turca. Apostatò per potersi vendicare di uno schiaffo ricevuto da un
turco e per liberarsi dalla condizione di galeotto. Divenne il più rinomato
ammiraglio della flotta, l’unico a farla franca dalla mischia e a ritornare a
Lepanto con 22 galere. Il
monumento funebre campeggia a Istanbul nel complesso di una moschea costruita a
sue spese. L’armata turca gli ha dedicato una classe di sottomarini. Anche il
paese natìo, Le Castella (CR), ha ritenuto opportuno dedicargli una piazza e un
monumento.
La tecnica di sottomissione (islamizzazione) dei
cristiani sotto governi islamici, dal VII al XXI secolo, è quella della rana
nell’acqua che da tepida diventa bollente. Fino a quando sono una minoranza
fanno la parte dei perseguitati, anche se non vero; ma al raggiungere la
maggioranza, o meglio il potere, le vessazioni anti-cristiane lasciano alle
vittime solo due opzioni: emigrazione o apostasia.
Costoro sanno benissimo che in un’atmosfera di libertà la
dottrina di Cristo avrebbe presto ragione delle tiritere coraniche; ecco perchè
si autoproibiscono il Vangelo e mettono a morte chi si converte a Cristo. La
ragione comune del 100% di conversioni (verificabili in Rete) di musulmani a
Cristo è averlo incontrato in una maniera o in un’altra. Ogni conversione nella
direzione opposta è dovuta invece a un tornaconto personale alla Uluch Ali.
Nel 1144 un esercito di turchi Selgiucchi al comando di
Zanki catturava Edessa. Dopo l’assassinio di costui “perchè troppo magnanimo”,
suo figlio Nur-al-Din coscienziosamente rase al suolo la seconda città più
bella del mondo dopo Costantinopoli, massacrando cristiani con abbandono. Come
al solito, ci fu chi perseverò fino al martirio e chi no. Chi visita oggi Urfa,
il nome turco di Edessa, a malapena si accorge di camminare sulle rovine di più
di 300 chiese. Quando un mosaico con tema cristiano viene accidentalmente alla
luce, i guerrieri di Allah si fanno un dovere di distruggerlo fino all’ultima
tessera.
La svolta decisiva in Asia avvenne nell’ultima decade del
XIII secolo, con la doppia conversione all’Islam dell’imperatore mongolo e
dell’Ilkhan di Persia. Poco prima Papa Giovanni XXII, da Avignone, aveva mandato
un gruppo di francescani sulla scia dei Mongoli in ritirata dall’Adriatico dopo
la morte di Oktai Khan. Uno di essi, Giovanni da Montecorvino divenne il primo arcivescovo
di Pechino nel 1308, in vita di Dante.
Ma fu troppo tardi. La marea aveva cambiato direzione. L’avvento
della dinastia cinese Ming nel 1368, e il contrattacco di Tamerlano verso ovest
ebbero ragione di migliaia di comunità cristiane, che sparirono dalla carta
geografica lasciando tracce qua e là, come la chiesa di rito Siro Malabarico e
quella di Siro Malankarico nell’India meridionale.
Fino al XVII secolo i regni di Kakheti e di Kartli
(Georgia), tagliati fuori dalle campagne di Tamerlano, resistevano come potevano
agli attacchi dello Shah Abbas il Grande (1557-1628), che offriva di negoziare
la pace (islamica, s’intende). Il sovrano Luarsab di Kartli prestò fede alle
promesse presentandosi nel campo persiano. Arrivato, arrestato e strangolato
furono un tutt’uno.
Il sovrano di Kakheti, Teimuraz I, non volendo fare la
stessa fine, temporeggiò. Chi ci rimise le penne furono sua madre la regina
Ketevan (1565-1624) e due giovani figli, ostaggi i tre nelle mani di Abbas.
Costui ordinò di castrare i ragazzi. Uno morì dalle
ferite riportate, l’altro impazzì. A Ketevan lo Shah propose la conversione
all’Islam e un posto d’onore nel suo
harem. La regina madre rifiutò. Si presentò al supplizio indossando tutte le
insegne regali. Venne denudata e la carne strappata a pezzi con molle roventi.
Quasi in fin di vita, le riversarono addosso l’intero contenuto del braciere,
strangolandola con la corda di seta di un arco.
Passano i secoli, la musica non cambia. Il sito www.citizengo.org.it sta promuovendo una campagna di liberazione a favore di
Asia Noreen Bibi, condannata a morte nel 2010 in Pakistan per aver offeso il
nome di Maometto, su testimonio di un solo uomo e senza prove. Il cattivo tempo
le imperversa sul capo dal 2009. Non
sarebbe corretto affermare che Asia “languisca” in prigione. Se ne uscisse, la
liberazione durerebbe fino a quando una folla inferocita, aizzata da un imam
demente, la linciasse. Ma lei non odia, non grida, non cede. Non è la sola. Lo
stesso sito calcola in 100mila i cristiani annualmente uccisi in odium fidei nell’immenso continente
asiatico, e in 150 milioni quello dei perseguitati che non arrivano alla
suprema testimonianza.
Camminando per le strade di Alessandria nel 64 A.D., a S.Marco
gli si ruppe una scarpa. Mentre Aniano calzolaio glie la aggiustava, Marco lo
evangelizzava. Finì che Aniano fu il suo primo successore alla testa della
chiesa copta (copto = egiziano). Dall’Egitto la fede si propagò verso ovest fino
all’Atlantico. Verso sud l’avevano portata l’eunuco ministro della Kandaké di
Kush (oggi Sudan settentrionale) di Atti 8,25 ss, e i due giovani siro-fenici
di Tiro Edesio e Frumenzio, che da schiavi dell’imperatore di Etiopia ad Axum
ne evangelizzarono il regno. Recatosi ad Alessandria per chiedere al vescovo
Atanasio di inviare un prelato ad Axum, questi scelse proprio Frumenzio. Lo
instruì, gli conferì gli ordini sacri e lo riinviò ad Axum come primo Abuna
(patriarca).
A metà del VII secolo arrivarono i nostri. In Egitto, i
copti oppressi (o così giudicavano) dal giogo bizantino li accolsero come
liberatori; non molto dopo si videro raddoppiare le tasse; poi le proibizioni:
niente suono di campane, niente croci in luoghi visibili, niente costruzione di
chiese nuove, niente manutenzione di quelle già esistenti, niente scuole,
niente, neanche a dirlo, proselitismo;
sempre paulatinamente, vennero le restrizioni personali: niente accesso
all’istruzione superiore, niente promozione negli impieghi statali, insomma
niente diritti civili al di fuori di quello che permette di vivere da djimmi
(cittadini di seconda classe).
Nel XIX secolo vi fu una ripresa, dovuta all’accorgersi
da parte dei Khedive musulmani che i Copti erano dopotutto una risorsa
economica per l’Egitto. Ma l’avvento di Nasser fu loro fatale: l’arabizzazione
si inasprì, il governo cominciò a confiscar loro terre e proprietà, molti
ripararono in Sudan e altrove. Uno di costoro divenne pilota in Sudan Airways.
Scoperto nel 1991 con una certa quantità di divisa estera venne condannato a
morte. Gli offrirono denaro e libertà se si fosse convertito a Maometto, ma
preferì la forca. E dopo pochi mesi le restrizioni punitive sulla possessione
di un tale corpo di reato vennero abolite. Quanti cristiani vivono in Egitto?
Le statistiche ufficiali li minimizzano; quelle loro li massimizzano, cioè
nessuna delle due è affidabile. Vanno da uno scarso 10% a un relativamente
abbondante 25%. Con l’arrivo e crescita dei fratelli Musulmani durante il
regime di Mubarak c’è chi asserisce che le persecuzioni sono le più severe da
14 secoli.
Dal V al XVI secolo tre regni cristiani segnavano il
corso dell’alto Nilo: Nobatia, Makuria e Alodia. Nel 642, appena conquistato
l’Egitto, un esercito del califfato tentò la conquista della Nubia, ma a
Dongola, capitale di Makuria, venne fermato da una pioggia di frecce, 250 delle
quali, ben mirate, accecarono altrettanti cavalieri di Allah. Una seconda
sconfitta, dieci anni dopo, finì in un bakt,
trattato di non aggressione che sarebbe durato 500 anni. La mancanza di unità
all’interno a partire dal secolo XI e la continua infiltrazione islamica condussero
all’estinzione dei tre regni nel 1504. Le 400 e più chiese e monumenti di
Makuria e Nobatia sono sommersi dalle acque del serbatoio di Aswan dagli anni
Sessanta.
I musulmani ebbero difficoltà con l’Etiopia. Nell’Arabia
pre-islamica fioriva il regno giudaico himiarita. Il suo re Yusuf Dhu Nuwas non
si fece scrupoli a massacrace circa 20mila cristiani a Najran. Ma dovette fare
i conti con il Negus Elesbaan, che li vendicò ponendo fine alla dinastia
himiarita nel 523.
Maometto, ben ricevuto dal contemporaneo Negus in Axum
nel 610, aveva ordinato ai suoi seguaci di non molestare gli etiopi, ma 900
anni dopo un esercito islamico fece caso omesso della proibizione e invase il
territorio, distruggendo chiese e simboli cristiani. L’intervento portoghese,
durante il quale perse la vita Cristoforo da Gama, figlio del navigatore Vasco,
riuscì a far mantenere l’indipendenza agli etiopi in una guerra di 32 anni,
1528-1560.
La resistenza etiope all’Islam guadagnò loro il
dispregiativo Habash (spazzatura), da dove il nome Abissinia, che naturalmente
non è di loro aggrado. Ma l’Islam continua a crescere. Ha raggiunto il 34-52%
della popolazione (secondo chi fa il conteggio) e cominciano a rivendicare
diritti, in attesa della presa di potere e di ribaltare la situazione come
fanno da 1400 anni.
Dopo la fine dell’impero bizantino (1453)
l’evangelizzazione si rivolse verso le Americhe. Ma non fu una passeggiata.
Prima l’ostilità degli indigeni, poi dei Protestanti, e infine dei massoni che
monopolizzano i governi USA da 200 anni, spartirono, e continuano a farlo, i
buoni dai cattivi marinai. E la vecchia Europa, nonché la tanto vituperata Italietta?
Gli italiani comincebbero bene con il conoscere sé
stessi, alla luce degli esempi storici appena riportati. La loro unione farebbe
una forza non indifferente se, e solo se, quello che ciascuno ha dentro di sé coincidesse con quello di
ciascun altro. Ma l’accozzaglia di origini etniche, culturali eccetera, forma
già una fitta selva oscura senza uscita. Uscita verso la quale indica la
strada, se si ha la forza di venirle appresso, la “vecchietta ceca” di Trilussa:
la Fede.
Storicamente gli Italiani non hanno mai avuto un altro
principio di unità. Quando d’Azeglio diceva che “bisognava fare” gli Italiani,
allo stesso tempo lui e compari distruggevano proprio quell’unico principio che
li aveva già fatti; le conseguenze di quella perdita le si vede dappertutto –solo
volendolo-.
Ai tempi di d’Azeglio la barca di Pietro affrontava i
marosi di un mondo ostile con i membri dell’equipaggio ognuno al posto di manovra
e il carico equamente distribuito. I fedeli potevano permettersi di vivere una
Fede ai minimi termini: la trilogia battesimo-matrimonio-funerale, Messa
domenicale, Comunione e Penitenza annuali, preghiere di emergenza, et similia.
Ma è un fatto che in molti di quei posti di manovra,
alcuni di una certa importanza, o non c’è nessuno, o chi c’è non fa il suo
dovere, o peggio commette atti di sabotaggio. La barca rolla, beccheggia e
straorza, minacciando naufragio. E il mal di mare coglie tanti. Chi presta fede
a chi non dovrebbe, immancabilmente si imbatte in un sabotatore che gli dà volentieri
tutte le agevolazioni per abbandonare la Barca.
Chi vuole salvezza, quindi, ha da capire che non è più
tempo di minimi termini. La “vecchietta ceca” indicava la strada a Trilussa “de
tanto in tanto”, ma il cattivo tempo infuria senza tregua, per cui il buon
marinaio deve issare e ammainare vele, stringere nodi e scioglierne altri in
una unione di mente, volontà e sentimenti altrettanto senza tregua, e che sola
gli permetterà di arrivare in porto.
Dal relato che precede, e da una conoscenza della storia
“intima” d’Italia, si evince che la situazione di oggi sembra essere il
capolinea di una ribellione, lungo un piano a gradiente leggero ma continuo,
cominciata con l’irrompere del neopaganesimo rinascimentale, per continuare prima
con la tempesta della Riforma protestante e poi con l’Illuminismo, per finire
con la Rivoluzione, che entrata nella Penisola con l’armistizio di Cherasco
(1796) ancora tiene banco, coinvolgendo strati sempre più numerosi di marinai
che fanno ancora troppo conto della bonaccia di una volta.
La bonaccia esiste solo nell’immaginazione del marinaio
che non sa più come manovrare quando il tempo si mette brutto. I parametri sono
diversi, ma 600 anni fa, agli inizi del secolo XV, lo sconcerto della
Cristianità (che ancora c’era, anche se non per molto) era al rosso vivo. Ben
tre papi in piede di guerra si disputavano la legittimità. Il malessere divise
perfino Caterina Benincasa da Siena da Vincenzo Ferrer di Valencia. La prima,
sostenitrice della linea romana, morì a due anni dall’inizio dello scisma; il
secondo, sostenitore dei papi avignonesi, lo visse per tutto l’arco dei 40 anni
1378-1418. E sebbene costui avesse sostenuto la linea avignonese fino al
Concilio di Costanza, ebbe a recarsi personalmente dal retrivo Benedetto XIII a
consegnargli il documento che ritirava l’obbedienza del re di Aragona. Pedro de
Luna fu irremovibile. Mantenne che solo un papa poteva convocare un Concilio, e
quello di Costanza si era autoconvocato.
Ancora oggi è moralmente impossibile affermare chi degli
otto che occuparono il soglio di Pietro a Roma, Avignone e Pisa fosse il papa,
o se fossero tutti antipapi. Lo si saprà al giudizio finale.
Chi poi crede apocalittica l’esistenza di due papi, sappi
che ve ne fu un’altra: l’anno 654 vide l’elezione romana di Eugenio I in vita
di Martino I prigioniero dell’imperatore bizantino Costanzo II, e che sarebbe
morto in Crimea l’anno seguente, 655.
Lungo codesti secoli, in Italia come nelle parti del
mondo sopraelencate, vi sono sempre stati i buoni e i cattivi marinai, ed è
arrivato il momento di fare il punto, espressione marinara che descriveva il
capitano e il suo secondo nel misurare la posizione esatta della nave con
sestante e cronometro.
Dal 1965 grandi fasce di clero e di laicato, sulla base
di una certa lettura di alcuni documenti conciliari, sbandierano la tesi
politicamente corretta secondo la quale la salvezza è a disposizione di
chiunque, dentro o fuori. Macché extra
Ecclesiam nulla salus! Non si sente più nessuno predicare la Parousia o
seconda venuta o cantare il Dies Irae.
L’Inferno, poi, o lo si nega del tutto,
o lo si dichiara vuoto, o se ne nega l’eternità, appigliandosi all’Apocatastasi
di origeniana memoria. E i quattro peccati che nel vecchio catechismo gridavano
alla vendetta divina, sono divenuti pilastri culturali (aborto) politici
(sodomia) ed economici (oppressione dei deboli e appropriazione del lavoro
altrui senza compenso).
Chi vuole vivere di fede e non di mode più o meno
durature, ha da affilare le armi: dalla conoscenza di sé a quella della storia,
che se una cosa insegna, è proprio il persistere dell’unità, immutabilità e
continuità della Fede nonostante attacchi da dentro e da fuori, provengano da
dove provengano.
Non è questione di sbandierare credenze in modo
provocatorio; ma non è neanche questione di tacerle quando ne arriva
l’opportunità. E se le botte arrivano, benvenute siano. Dopotutto fanno parte
delle promesse del Maestro.
Visione di
insieme
Si sa che è impossibile ricomporre un puzzle senza prima vederne
l’immagine finale provvista sul coperchio della scatola. Ma è proprio quel che
accade ai più in questioni di fede: ci si concentra su poche, a volta solo una,
tessera del gioco, e credendo di approdare in porto, si galleggia invece senza
meta e senza speranza nel mare in tempesta.
A un abate di un monastero egiziano che ancora oggi sorge
dalle sabbie del Deserto Orientale venne chiesto come mai tanti giovani monaci
non perseverassero. Rispose che molti di essi venivano attratti dall’esempio di
coloro che colà vivevano, ma a mo’ di levrieri che raggiungono una muta che
corre, quindi solo perchè vedono correre tanti loro consimili. Viene detto loro
che si corre dietro a una lepre, ma per varie ragioni molti quella lepre non
arrivano mai a vederla. Si chiedono quindi perché corrono, e l’unica risposta è
perchè gli altri lo fanno. E abbandonano.
Che lepre può permettere un inseguimento atletico,
coinvolgente, vita natural durante?
La persona di Cristo, ma non solo. E Cristo, si afferma,
ha fondato la sua Chiesa. Ma a che pro?
Uno spettatore che non molto tempo fa partecipava a una
conferenza sulla pratica dell’esorcismo chiese a un amico: cosa sarebbe la
Chiesa senza il diavolo?
Forse parlò senza pensarci, ma la domanda è
azzeccatissima. Senza gli spiriti maligni, fonte remota di ogni male secondo la
teologia cattolica, non vi sarebbe il male tout
court, e quindi non l’inferno creato appositamente per loro, non la
tentazione primigenia, non il peccato originale, la morte, la perdita dei doni
preternaturali eccetera. Insomma il paradiso terrestre sarebbe hic et nunc in perfetta continuità con
il piano divino originale.
Ma non poteva Dio
impedire quella ribellione? Qui è il mistero: Dio crea esseri liberi, e ne
rispetta la libertà. Impedire la ribellione vuol dire o non crearli o crearli
senza libero arbitrio. Chiunque se lo chieda, si chieda anche se preferirebbe
esistere o no, o esistere non libero, all’esistere così com’è, nel bene e nel
male.
La ‘lepre’ è quindi la visione di insieme della contesa
di dimensioni cosmiche che infuria da sempre tra le forze di Cristo e quelle di
Lucifero, angelo capo di tutti gli spiriti caduti, collettivamente detti satana
(ebraico = avversario). Una tale visione di insieme non può che essere storica:
ogni episodio, personaggio, istituzione esistiti durante i secoli va incastrato
proprio come una tessera di puzzle nel gran quadro della storia. Il quale,
proprio come l’immagine stampata sul coperchio del gioco del puzzle, ha quattro
lati: Creazione-elevazione degli esseri dotati di libero arbitrio; la loro
caduta nel peccato; l’offerta di redenzione al genere umano, e il giudizio
finale. Dalle prime pagine di questo saggio si può evincere come questa visione
sia la stessa a prescindere da storia e geografia.
Chi perde la visione d’insieme in tutto o in parte, vive o
senza fede, o con una fede zoppa o manca. A prescindere dal destino eterno, che
non è affar nostro predire, costui/costei vivrà un’esistenza terrena drasticamente
impoverita, sempre alla mercè della tentazione fatale di saltare fuori dalla
barca, che puranche strapazzata galleggia nella violenza crescente dei flutti.
In Cerca di
Unità
L’essere umano gode di unità al livello della materia, ma
non al di sopra: passioni, intelletto e volontà soffrono una disgregazione
sconcertante, difficilissima da ricomporre senza sforzo, e con successo per
niente garantito. Chi ha fede sa che il disordine è conseguenza del peccato di
origine; chi non la ha deride, vilipendia, disdegna eccetera, ma rimane senza
spiegazione del fenomeno, oppure produce spiegazioni scaricabarile che non
soddisfano neanche sé stesso.
La brama di unità rimane, ma lo sprovveduto la cerca nell’indipendenza,
il che produce tutto l’opposto. Chi rifiuta di sottomettersi al “giogo soave”
del Redentore, si sottomette, volente o nolente, a quello pesantissimo di uno o
più idoli. I quali accattivano con promesse che mai mantengono. Hanno poi la
cattiva abitudine di crollare senza preavviso, lasciandosi dietro un vuoto
esistenziale che, se non colmato in tempo, porta alla disperazione.
Tentare di vivere di fede riduttivamente, cioè solo a
livello di sentimento, o
di intelletto, o di volontà, non funziona. La mancanza di unità prima o poi
condurrà a decisioni fallimentari. La strada è un’altra: capire il problema di
insieme prima dei mezzi per risolverlo, cioè Credo, Decalogo, Sacramenti e
orazione.
Vivere la Fede, quindi, non è sdraiarsi su allori
avvizziti dal tempo. È milizia, tanto contro sè stessi quanto contro gli
attacchi da fuori, identici oggi a quelli dell’intero arco dei due millenni
scorsi. Paradosso? Certamente. La vita cristiana non offre altro.
Chi vive di fede sa che il Cristo è non solo uno, senza
divisioni moderniste tra quello della fede e quello storico, ma anche che vive,
e che non si rimane indifferenti davanti a Lui: o lo si ama, e si sopportano le
angherie che Asia Bibi sopporta da anni, o lo si odia, come fanno i persecutori
di tutte le età. Ma lo si teme anche. Pochi sanno che ad ogni mese di maggio le
forze armate del governo cinese bloccano tutte le strade di ingresso al
villaggio di Dong Lu, a un’ora di auto da Pechino. Gli è che da 114 anni gli
abitanti, 90% cattolici, celebrano la fuga precipitosa di un esercito di 10mila
soldati inviati dal governo imperiale per sterminarli. Invece, un’apparizione
di Maria li mise in fuga, e di questo il governo ha paura.
La fede della Chiesa ha le tre caratteristiche di unità,
immutabilità, continuità. La prima rende possibile il catechismo: non si
riflette a sufficienza sul fatto che solo la Chiesa cattolica ne ha uno. Non
può esservi coerenza senza completezza, per cui negando anche un solo punto di
dogmatica, di morale o di sacramentaria, addio unità e addio possibilità di
catechismo. Ecco perchè nessuno più legge le Costituzioni di Calvino: sono cocci che facevano parte di un vaso,
ma non hanno mai permesso di ricomporlo.
È indubbio che lo sconcerto dei fedeli abbia raggiunto
livelli impensabili fino a pochi anni fa. Per dirla con Paolo, la tromba non dà
un segnale inequivoco di combattimento. Se ne dicono e se ne fanno di tutti i
colori. Ma vi sono stati momenti simili, o peggiori, in 2000 anni di storia?
Eccome vi sono stati, e fin dal principio. Giovanni, il
più giovane tra i Dodici, non doveva avere il morale proprio alto nel recarsi
ai piedi della Croce per trovarvi solo tre donne e una folla ostile e
dileggiante. Però vi si recò. Pietro se l’era svignata -di nuovo-, questa volta
collegialmente. Giovanni non lo seguì, e non conosciamo il suo stato d’animo
quando il Cristo risorto confermò in carica proprio l’apostolo fedifrago e
codardo. Il che voleva dire che lui, il fedele coraggioso, avrebbe dovuto
amarlo e obbedirlo nonostante tutto. E lo fece. Che fedele può dire oggi di
passarla peggio di Giovanni adolescente?
Come usare le armi poc’anzi accennate? Rivolgendosi a un
maestro d’armi: un prete, capace e volenteroso di dare i consigli opportuni.
Dove trovarlo? Al posto di manovra. Ostenta costui la condizione clericale,
meglio se indossando la talare? Prega? Celebra con unzione, senza istrionismi?
È disposto ad amministrare i sacramenti su richiesta? Se la risposta è
affermativa alle quattro domande, lo si tenga stretto perchè gente così
scarseggia. E ci si prepari al combattimento.
Questo va cominciato distinguendo chiaramente la libertà dall’indipendenza.
I due termini vengono usati con una leggerezza degna di miglior causa, mentre
uno sguardo anche sfuggevole rivela l’enorme differenza tra le due.
Una metafora può aiutare a capire: un locomotore da 5000
cavalli è un bestione potentissimo, ma che può esercitare libertà solo dentro due umilissime rotaie d’acciaio, dalle quali
deve dipendere, pena il diventare un
rottame istantaneo e irreversibile.
L’uomo ha lo stesso problema del locomotore, solo che ha
la facoltà di uscire dai binari se vuole. Facendolo, comincia a carpire dies, illudendosi di essere libero. Ma
in realtà sono i dies a carpire lui,
il che può facilmente provare chiedendosi: potresti volontariamente privarti di quello che giornalmente carpisci?
L’inevitabile negativa rivelerebbe la totale mancanza di libertà.
Il fatto è che solo Dio è libero nonché indipendente. Per l’uomo, radicalmente dipendente, vale un
altro discorso. Diamo la parola a S.Tommaso:
“La persona è libera quando appartiene a sè stessa; lo schiavo, al
contrario, appartiene a un padrone. Quindi chi agisce spontaneamente agisce
liberamente, mentre chi viene spinto da un altro non agisce liberamente. Per
cui chi evita il male non perchè sia male, ma perchè vi è un comandamento di
Dio, non è libero. Al contrario, chi evita il male perchè è male, costui è
libero”.
Nel discorso di cui sopra entrano coloro che evitano il
male non per amore all’Autore del comandamento, ma per paura dell’inferno.
Marx e Nietzsche bollano costoro come schiavi. E loro due?
Le due figlie del primo morte suicide e il secondo che piangendo demente
abbracciava un cavallo in una strada di Torino non fanno certo pubblicità di
‘libertà’. E allora?
La ragione e il libero arbitrio fanno da binari per il
locomotore umano. Come diceva S. Agostino,
“Un uomo buono, anche se schiavo, è libero. Un malvagio, anche se re, è
schiavo, e quel ch’è peggio non di un solo padrone; ma di tanti, quanti sono i vizi
che ha contratto.
La tentazione luciferina di voler creare la verità, risalente ai Progenitori e spolverata e lucidata
da Descartes in poi, ha prodotto, e continua a produrre, eserciti sterminati di
schiavi, che passano il tempo dipingendo le catene di innumerevoli cianfrusaglie
effimere (perfetto termine greco: di un giorno) che si illudono di aver
‘carpito’.
Il discorso non finisce qui. Un diemcarpista
potrebbe rimbeccare, alla Mark Twain,
“Se mi fosse dato da scegliere, sarebbe il cielo per il clima ma l’inferno
per la conversazione”.
Scusando il buon Mark per l’ignoranza di teologia, la
domanda pertinente è: come può la libertà, ancorata com’è alla verità, produrre
felicità terrena non solo che non
impedisca, ma che garantisca, quella eterna? Vediamolo.
Quello che il pensiero debole chiama “vita” è in realtà tempo, inserito tra due eternità: ante-concepimento,
vocazionale ab aeterno, e post-mortem, con vocazione conseguita o frustrata, in aeternum. Pochi prestano attenzione
alla prima, pagando quell’ignoranza con il prezzo di una vita senza senso, e
arrivandone alla fine frustrati e impreparati. Ma proprio quella prima
eternità, in mente Dei, è la chiave
che apre le porte della felicità terrena. Dio non ci vuole miserabili sulla
terra per poi rifarci con la vita eterna: ci vuole felici sempre, vita natural
durante. E il “segreto” della felicità terrena non è altro che accettare il
progetto divino sul da fare durante il tempo concesso quaggiù e lavorarci su
fino al termine.
Ma se questa prima parte dell’esistenza è in mente Dei, solo Dio può rivelarla, e
solo all’interessato/a. Dal che segue che la prima virtù da sviluppare
cronologicamente è la pietà, cioè l’abito della preghiera. Fa capire cose che
raramente appaiono alla luce del giorno: la cucitrice spagnola Francisca
Javiera del Valle (1857-1930), semianalfabeta e poverissima, ha lasciato pagine
sullo Spirito Santo mai eguagliate da teologi professionisti. La caratterizzava
una pace interiore inalterabile, nonostante difficoltà e persecuzioni
incomprensibili.
Per costei il catechismo e il Magistero furono
sufficienti. Ma la tempesta era ancora da venire. Chi oggi fa e disfa nodi e
ammaina vele deve essere esperto. E mentre pochi attaccavano la Fede ai tempi
della Nostra, oggi la cosa è routine. Il catechismo va bene come pedale di
avviamento, ma diviene sempre più urgente sapere di dogmatica, morale e
sacramenti, a volte per controbattere difficoltà poste perfino da addetti ai lavori. Chi lo
fa, giudica le realtà attorno a sé per quello che sono: onde che passano. E sa
anche che Gesù mai promise un trionfo terreno della sua Chiesa. Quel trionfo
verrà, ma al Dies Irae,
non prima.
Chi confonde la libertà con l’indipendenza, naturalmente,
non vede nulla di ciò. Ma chi sa che la libertà di una creatura può solo
esistere in dipendenza dalla verità,
lo vede benissimo, lo accetta, e vive felice. La prova? Gli si chieda cosa
farebbe ad essergli concesso di rivivere il vissuto. Se risponde che farebbe
quello che ha fatto può esser considerato felice.
Facile dictu: questa conoscenza viene resa difficile dall’enorme
ammasso di chincaglieria che attrae i sensi, ma che però contiene anche le
ferramenta naturali, da complementare con i doni soprannaturali, per condurre
il progetto a termine.
Diventa evidente a questo punto che senza la conoscenza
di sé il rischio diventa estremo. E chi ha fede sa anche che è inutile tentare
di conoscere sé stesso senza chiederlo a Chi tiene la cianografia del progetto.
In una parola, pregando.
Con l’orazione si viene a conoscere non solo il progetto,
ma anche le ferramenta: che talenti ho, quali non ho, quali di essi mi conviene
sviluppare, e quali tralasciare, temporaneamente o anche permanentemente?
Non sviluppare talenti esistenti è meno pericoloso che
tentare di svilupparne di non inesistenti: non molto fa un 28enne si suicidava
per essere stato bocciato a un esame. A
conoscere sé stesso, avrebbe dovuto capire da una decina d’anni che
l’istruzione accademica non era per lui.
Dopo la pietà viene il pensare rettamente. Qui è da
rimarcare che la malchiamata “filosofia moderna” è riuscita a stravolgere le
menti dei più, facendo loro credere che quel che è dipende da quel che si
pensa, non viceversa come da sempre ha voluto il senso comune e la filosofia
dell’essere.
La quale venne ridotta al silenzio non con le armi della
logica ma con quelle del dileggio rumoroso e continuato. L’ultimo a dire la sua
è il libanese Nassim Taleb: “Indossare la camicia di forza della (ristretta)
logica aristotelica ed evitare contraddizioni fatali non sono la stessa cosa”.
Ma quella logica è l’unica che
permetta di evitare proprio le contraddizioni in cui incappa chi non ne fa uso,
e lo permette proprio perchè ristretta,
cioè va al grano senza perdersi in labirinti ideologici.
Gli utenti della philosophia
perennis, antichi o moderni, sanno che si tratta di una ferramenta capace
di mettere ordine in qualsiasi campo
dello scibile, anche, come descritto sopra, quello della fede.
Sarebbe quindi questo il segreto della felicità terrena?
Perfezionare talenti esistenti alla luce di un progetto eterno? Se no, che
significato avrebbero le parole del Cristo “siate perfetti come il Padre mio è
perfetto”? Non è affatto un segreto, ma un dato di fede. L’orazione toglie la
benda dagli occhi, rendendo capaci di distinguere ricchezze da carabattole.
E il tempo non è mai né lungo né corto: 40 anni bastarono
ad Augustus Pugin
per progettare e completare dozzine di bellissimi edifici in stile gotico tra
cui primeggia il Parlamento Britannico, e 40 anni furono sufficienti a Hermann
lo Storpio
per scrivere, ricercare e comporre parole e musica di innumerevoli inni liturgici,
tra i quali primeggiano la Salve Regina
e Alma Redemptoris Mater.
Hermann nacque storpio, soffriva di spina bifida e di
gola di lupo. Morì delle due, ma non impazzì. Aveva invece un sorriso
permanente sulle labbra. Se la ‘squola’
d’obbligo insegnasse certe cose…
Silvano Borruso
7 gennaio 2014
La sua lettera di Natale al Papa è in Rete.
Super II Cor. Cap. 3, lct. III.