Sul
declivio di Enrico Letta hanno steso un tappeto rosso. I paggi preposti hanno
l’incarico di accompagnarlo con qualche onore e ricompensa nella sua
passeggiata volontaria verso la porta di uscita oppure di strattonare quel
tappeto e provocare il capitombolo rovinoso al Presidente riottoso. La sua
indole lo porterebbe a rinviare e traccheggiare; la natura stessa della
coalizione che lo sorregge favorirebbe questa sua propensione; ha scelto la
linea dello scontro aperto. Negli articoli precedenti ho evidenziato la
progressiva inesorabile erosione dei pilastri su cui poggiava il disegno
politico del suo Governo e della maggiore forza politica a suo sostegno, prima
che cambiasse il segretario e la inesorabile disgregazione sociale e politica
provocata da essa. Ora non gode più nemmeno dell’investitura esplicita del
Presidente della Repubblica. La recente campagna di stampa sulle dinamiche
riguardanti la nomina a Capo del Governo di Mario Monti nel 2011, avviata
dall’intervista di Alan Friedman sul Corriere, basata su elementi ampiamente
preannunciati, anche con diversi mesi di anticipo, dalla nostra testata e da
pochi altri, costituisce, probabilmente, un avvertimento a Napolitano a
chiudere al più presto l’esperienza dei governi tecnici e di emergenza e a
concludere rapidamente questa interminabile transizione.
A
questa erosione che ha riguardato la gran parte del ceto politico soprattutto
sinistrorso si è aggiunto il particolare grigiore con il quale Enrico Letta ha
svolto il suo incarico. Della sua politica economica ed europea ho già trattato
altrove. Ultimamente, si è esposto inizialmente oltre misura sulla questione
ucraina a nome di capi di stato e di una Comunità europei ben più
compromessi nelle ingerenze in quel paese, ma rimasti furbescamente dietro le
quinte; ha brillato nel silenzio sul progetto di unione bancaria europea; si è
prodigato generosamente nell’elemosinare finanziamenti e capitali dall’estero e
dalla Comunità Europea, pescando soprattutto nel mondo della finanza
anglosassone e collaterale, compresa quella dei paesi petroliferi del Golfo, ma
ignorando bellamente le potenzialità di condizionamento di questi flussi sulla
realtà industriale e politica del paese. Alla masochistica linearità di
comportamenti in terra straniera si è accompagnata una conduzione allegramente
caotica della cosa pubblica all’interno del paese.
Rispetto
al quadro politico attuale l’avvento del nuovo salvatore comporta, però,
una evidente forzatura che rischia di mettere a nudo i numerosi paradossi
di questa rappresentazione e di risucchiare i protagonisti designati del nuovo
corso, in particolare Matteo Renzi, nell’emergenza del presente sino a finirne,
con ottime probabilità, stritolati e riomologati.
Vediamo qualcuno di questi paradossi
Il primo Matteo Renzi, quello per
intenderci delle primarie con Bersani, puntava a sostituire radicalmente lo
zoccolo duro del quadro militante ed elettorale del PD proponendo una politica
apertamente “punitiva” di quei settori e confidando in un rapido travaso di
simpatizzanti ed elettori dagli ambienti liberali, professionali ed
associazionistici attorno al nucleo di nuovi amministratori locali formatisi
negli ultimi anni soprattutto con la gestione del PD curata da Veltroni e
Bersani. Subita una prima battuta di arresto, è rientrato a bruciapelo nel
gioco con la crisi paralizzante del vecchio gruppo dirigente democratico
successiva alle elezioni del 2013; la repentina elezione a segretario più che
di un radicale rinnovamento del gruppo dirigente è il frutto di un ammiccamento
sempre più evidente ai temi classici cari a quello zoccolo duro, dalla
scuola alle mere garanzie di reddito sino a sforare, per il momento
occasionalmente, nella retorica dell’antiberlusconismo vero e proprio.
Il secondo paradosso è
strettamente connesso al primo e determinato dai tempi strettissimi con i quali
le crisi politiche ricorrenti stanno bruciando le opzioni e i dirigenti
politici portatori di esse. Nel giro di tre anni si sono bruciati e
sacrificati, con le buone o le cattive, personaggi, in ordine temporale e di
levatura politica, come Berlusconi, Tremonti, Monti, Passera, Bersani e
Letta, con le prime avvisaglie di un mesto epilogo dello stesso Napolitano. Il
risultato di queste continue accelerazioni dei momenti di crisi è che Renzi,
ammesso che riesca a risolvere le ritrosie di Letta evitando scontri frontali,
si vede risucchiato in tempi di scelta dissonanti dalla sua agenda
conclamata e si troverà a gestire la transizione con una fronda interna, in
particolare negli apparati istituzionali, in ispecie nel Parlamento, dalla
scarsa capacità rappresentativa e, quindi, di mobilitazione ma in grado
perfettamente di rallentare ed annacquare ogni proposito riformatore, senza
riconoscere da parte mia necessariamente al termine un connotato positivo.
Il terzo paradosso è
rappresentato dal NCD di Alfano, indispensabile alla nuova coalizione; l’arrivo
al governo con queste modalità, a questo punto simili a quelle dei due governi
precedenti, comporta tempi lunghi di esercizio di un governo il quale man mano
che assumerà sempre più le caratteristiche di un nuovo centrosinistra e meno
quello di governo di emergenza ed istituzionale, renderà sempre più scomoda ed
instabile la posizione del NCD.
I
paradossi, però, di per sé non determinano necessariamente il successo o il
fallimento di un processo politico e delle carriere dei soggetti portatori; ad
alcuni di questi viene chiesto, spesso e volentieri, il sacrificio politico
personale se non il raggiro illusionistico. Il caso Fini, nel nostro cortile,
fa scuola.
Nella
storia, il più delle volte, abbiamo conosciuto il naufragio di personalità che
hanno tentato di gestire il corso ordinario delle cose e, nelle fasi di
transizione, anche le svolte politiche. In tempi recenti abbiamo conosciuto
negli Stati Uniti le sconfitte di Carter negli anni ’70 e del successore
repubblicano di Bush Junior nel 2008; qualche volta si è riusciti a garantire
la continuità politica come nella transizione tra Reagan e Bush senior; quasi
mai, anche nei processi rivoluzionari di maggior successo, le intenzioni
espresse nei programmi politici proclamati dalle forze vittoriose hanno
corrisposto agli atti concreti e agli schemi prefissati; tutto questo a
prescindere dalle volontà soggettive.
Se
questo avviene regolarmente nel corso del conflitto tra gruppi strategici nei
paesi più solidi dominanti come negli Stati Uniti degli ultimi decenni o in
situazioni di contrasto violento anche in paesi secondari nel quale tende ad
emergere un nuovo gruppo dirigente solido, determinato e radicato contrapposto
ad un quadro istituzionale frammentato e debilitato, figuriamoci quali
situazioni paradossali si possano verificare in paesi, come l’Italia degli
ultimi trenta anni, dove si contrappongono centri di potere e gruppi dirigenti,
costituiti per altro in minima parte dai politici da palcoscenico, tanto deboli
e precari all’interno del loro paese, quanto facilmente condizionati ed eterodiretti
dall’esterno, dai centri dei paesi dominanti.
I
paradossi diventano quindi dirompenti quando i centri alternativi non
hanno sufficiente pervasività nei gangli vitali, non dispongono di un
importante e coerente radicamento sociale, non presentano un programma politico
coerente rispetto ai due punti precedenti.
Dell’incoerenza
del radicamento sociale ho già parlato; riguardo alla pervasività nei gangli
vitali, il gruppo di cui è espressione Matteo Renzi è decisamente lontano da un
controllo significativo tanto più necessario in una situazione di
frammentazione e sovrapposizione di poteri tra le varie articolazioni dello
Stato e di indebolimento significativo dei centri economici, finanziari ed
associazionistici. Tanto più che a questa caratteristica strutturale si è
aggiunto il fenomeno della sempre maggiore inadempienza della Pubblica
Amministrazione nel dare corso all’attuazione delle leggi, un po’ per
l’iperproduttività del legislatore, ma soprattutto per lo scollamento dei
centri burocratici decisionali dai centri legiferanti.
Un altro fattore che ha
infatti determinato l’accelerazione degli eventi è sicuramente la
quantità di nomine ed incarichi in scadenza nelle prossime settimane.
Riguardo al programma politico, la
riorganizzazione istituzionale proposta da Renzi mantiene una propria coerenza;
punta sulla possibilità di costituire comunque un governo eliminando il
dualismo del Senato; prevede una rappresentanza delle amministrazioni locali
nella nuova conformazione del Senato; punta ad una ridefinizione delle
competenze tra Stato Centrale ed amministrazioni periferiche (titolo V della
Costituzione); se si aggiungono le proposte trapelate dal “job act” con il
quale si elimina definitivamente la distinzione tra diritto del lavoro pubblico
e privato e si sancisce l’amovibilità dei quadri dirigenti pubblici, emerge
anche la volontà di acquisire un controllo dell’operato della pubblica
dirigenza. Sui primi due punti del programma politico, grazie all’accordo con
Berlusconi, ci sono buone probabilità di conseguire l’obbiettivo. Sul titolo V
e sulla riorganizzazione delle amministrazioni locali l’indicazione è troppo
generica, non cita la possibilità di accorpamenti delle regioni e, soprattutto,
glissa sulla forza del principale alleato su cui le regioni e le comunità
possono contare: la Comunità Europea e la sua politica di sostegno delle
politiche regionali in funzione dell’indebolimento dei poteri e delle politiche
nazionali. Un indirizzo costitutivo dell’Unione sin dai tempi di Monnet, negli
anni ’50.
Manca, infatti, nei programmi di Renzi, un
qualsiasi riferimento serio di una qualche autonomia rispetto all’attuale
collocazione internazionale, alle politiche comunitarie e alla politica
industriale del paese che non si limiti ad una manipolazione generica di
incentivi, crediti e sgravi. Tutto lascia presagire un allineamento ancora più
rigoroso riguardo alle dismissioni e privatizzazioni, alle virtù intrinseche
del libero mercato. Ci sarà comunque modo di valutare sulla base dei prossimi
eventi.
Quel
che appare chiaro è che il dinamismo cui è obbligato Renzi si sta trasformando
in un forzato parossismo indotto da evidenti pressioni esterne, in particolare
degli ambienti anglosassoni e democratici americani.
Preoccupa
probabilmente la precarietà e l’instabilità sociale di un paese, collocato
strategicamente al centro di una zona calda, densa ormai di conflitti, ma con
apparati in grado di fronteggiare con difficoltà, fortunatamente, situazioni di
aperto conflitto; tanto più che occorre mettere in sicurezza le acquisizioni a
man bassa operate non solo nei settori industriali strategici, ma anche in
settori nevralgici come la distribuzione commerciale, l’agricoltura, nella
industria di base e prossimamente nelle reti infrastrutturali di servizio.
I
timori suscitati dalle proteste dei “forconi” hanno rivelato l’inquietudine che
pervade le attuali classi dirigenti.
D’altro
canto si cerca di cogliere l’occasione di far pagare alla potenza regionale
alleata e rivale, la Germania, i costi di un parziale riequilibrio in maniera
tale da integrarla ulteriormente nei circuiti e da vincolarla attraverso
ulteriori legami finanziari di tipo speculativo; uno dei modi, per altro, per
richiamare ad una maggiore fedeltà nella gestione dei conflitti, oggi l’Ucraina
e la Moldova, un alleato un po’ “distratto”.
È
lo scotto che devono pagare quelle potenze regionali che vogliono rimediare
rendite di posizione a scapito dei vicini ma senza mettere in sostanziale
discussione la loro sudditanza di fondo verso il dominus globale.
Il
risultato sono le rivalità tra potenze minori alimentate o sedate dalla forza
dominante a seconda delle contingenze politiche; un gioco a cui le classi
dirigenti nostrane si sono prestate frequentemente sin dall’immediato
dopoguerra scambiando una relativa indipendenza dai vicini di casa con un
ulteriore asservimento verso il consueto liberatore lontano ma con solide basi
piantate sul territorio nazionale.
Renzi, come in precedenza D’Alema e Veltroni,
sembra confidare troppo in questi “aiutini” e in questo
tipo di investitura. Rischia di essere ricacciato in breve tempo nello schema
di questi ultimi venti anni, se non di assumere il ruolo di vittima
sacrificale; spianerà ancora una volta la strada più che a Berlusconi,
ormai attempato, ad un eventuale suo erede, ma sempre nell’area del
centrodestra.
Del
resto la vera partita tra forze disposte a svolgere un ruolo complementare ma
quantomeno contrattato nello scacchiere internazionale e forze disposte a
conquistarsi un ruolo ben più autonomo si giocherà prevalentemente in quei
centri politici e nelle forze sociali raccolte da esso.
Prima
Berlusconi sparirà da quel contesto, prima si delineeranno con maggior
chiarezza questi schieramenti.
Renzi
non sta facendo altro che contribuire a procrastinare quel connubio nefasto per
il paese.
Potrà
sperare di trarre un maggiore vantaggio solo con l’ennesimo intervento di un
deus ex-machina teso a sconvolgere e disturbare l’azione del Cavaliere;
da Tangentopoli in poi si sa quali figure istituzionali si sono assunte questo
ruolo da protagonista.
Il
risultato sarebbe per altro, più che una marcia trionfale, una affermazione
temporanea di una fazione oligarchica rispetto ad altre, tutte con un potere
scarsamente diffuso e soggette quindi a continui colpi di mano, facili da
compiere come da ribaltare.
Giuseppe Germinario
FONTE: http://www.conflittiestrategie.it
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