sabato 15 febbraio 2014

LO SCENDILETTA


Sul declivio di Enrico Letta hanno steso un tappeto rosso. I paggi preposti hanno l’incarico di accompagnarlo con qualche onore e ricompensa nella sua passeggiata volontaria verso la porta di uscita oppure di strattonare quel tappeto e provocare il capitombolo rovinoso al Presidente riottoso. La sua indole lo porterebbe a rinviare e traccheggiare; la natura stessa della coalizione che lo sorregge favorirebbe questa sua propensione; ha scelto la linea dello scontro aperto. Negli articoli precedenti ho evidenziato la progressiva inesorabile erosione dei pilastri su cui poggiava il disegno politico del suo Governo e della maggiore forza politica a suo sostegno, prima che cambiasse il segretario e la inesorabile disgregazione sociale e politica provocata da essa. Ora non gode più nemmeno dell’investitura esplicita del Presidente della Repubblica. La recente campagna di stampa sulle dinamiche riguardanti la nomina a Capo del Governo di Mario Monti nel 2011, avviata dall’intervista di Alan Friedman sul Corriere, basata su elementi ampiamente preannunciati, anche con diversi mesi di anticipo, dalla nostra testata e da pochi altri, costituisce, probabilmente, un avvertimento a Napolitano a chiudere al più presto l’esperienza dei governi tecnici e di emergenza e a concludere rapidamente questa interminabile transizione.
A questa erosione che ha riguardato la gran parte del ceto politico soprattutto sinistrorso si è aggiunto il particolare grigiore con il quale Enrico Letta ha svolto il suo incarico. Della sua politica economica ed europea ho già trattato altrove. Ultimamente, si è esposto inizialmente oltre misura sulla questione ucraina a nome di capi di stato e di una Comunità europei  ben più compromessi nelle ingerenze in quel paese, ma rimasti furbescamente dietro le quinte; ha brillato nel silenzio sul progetto di unione bancaria europea; si è prodigato generosamente nell’elemosinare finanziamenti e capitali dall’estero e dalla Comunità Europea, pescando soprattutto nel mondo della finanza anglosassone e collaterale, compresa quella dei paesi petroliferi del Golfo, ma ignorando bellamente le potenzialità di condizionamento di questi flussi sulla realtà industriale e politica del paese. Alla masochistica linearità di comportamenti in terra straniera si è accompagnata una conduzione allegramente caotica della cosa pubblica all’interno del paese.
Rispetto al quadro politico attuale l’avvento del nuovo salvatore comporta, però,  una evidente forzatura che rischia di mettere a nudo i numerosi paradossi di questa rappresentazione e di risucchiare i protagonisti designati del nuovo corso, in particolare Matteo Renzi, nell’emergenza del presente sino a finirne, con ottime probabilità, stritolati e riomologati.

Vediamo qualcuno di questi paradossi
Il primo Matteo Renzi, quello per intenderci delle primarie con Bersani, puntava a sostituire radicalmente lo zoccolo duro del quadro militante ed elettorale del PD proponendo una politica apertamente “punitiva” di quei settori e confidando in un rapido travaso di simpatizzanti ed elettori dagli ambienti liberali, professionali ed associazionistici attorno al nucleo di nuovi amministratori locali formatisi negli ultimi anni soprattutto con la gestione del PD curata da Veltroni e Bersani. Subita una prima battuta di arresto, è rientrato a bruciapelo nel gioco con la crisi paralizzante del vecchio gruppo dirigente democratico successiva alle elezioni del 2013; la repentina elezione a segretario più che di un radicale rinnovamento del gruppo dirigente è il frutto di un ammiccamento sempre più evidente ai temi classici  cari a quello zoccolo duro, dalla scuola alle mere garanzie di reddito sino a sforare, per il momento occasionalmente, nella retorica dell’antiberlusconismo vero e proprio.

Il secondo paradosso è strettamente connesso al primo e determinato dai tempi strettissimi con i quali le crisi politiche ricorrenti stanno bruciando le opzioni e i dirigenti politici portatori di esse. Nel giro di tre anni si sono bruciati e sacrificati, con le buone o le cattive, personaggi, in ordine temporale e di levatura politica,  come Berlusconi, Tremonti, Monti, Passera, Bersani e Letta, con le prime avvisaglie di un mesto epilogo dello stesso Napolitano. Il risultato di queste continue accelerazioni dei momenti di crisi è che Renzi, ammesso che riesca a risolvere le ritrosie di Letta evitando scontri frontali, si vede  risucchiato in tempi di scelta dissonanti dalla sua agenda conclamata e si troverà a gestire la transizione con una fronda interna, in particolare negli apparati istituzionali, in ispecie nel Parlamento, dalla scarsa capacità rappresentativa e, quindi, di mobilitazione ma in grado perfettamente di rallentare ed annacquare ogni proposito riformatore, senza riconoscere da parte mia necessariamente al termine un connotato positivo.

Il terzo paradosso è rappresentato dal NCD di Alfano, indispensabile alla nuova coalizione; l’arrivo al governo con queste modalità, a questo punto simili a quelle dei due governi precedenti, comporta tempi lunghi di esercizio di un governo il quale man mano che assumerà sempre più le caratteristiche di un nuovo centrosinistra e meno quello di governo di emergenza ed istituzionale, renderà sempre più scomoda ed instabile la posizione del NCD.
I paradossi, però, di per sé non determinano necessariamente il successo o il fallimento di un processo politico e delle carriere dei soggetti portatori; ad alcuni di questi viene chiesto, spesso e volentieri, il sacrificio politico personale se non il raggiro illusionistico. Il caso Fini, nel nostro cortile, fa scuola.
Nella storia, il più delle volte, abbiamo conosciuto il naufragio di personalità che hanno tentato di gestire il corso ordinario delle cose e, nelle fasi di transizione, anche le svolte politiche. In tempi recenti abbiamo conosciuto negli Stati Uniti le sconfitte di Carter negli anni ’70 e del successore repubblicano di Bush Junior nel 2008; qualche volta si è riusciti a garantire la continuità politica come nella transizione tra Reagan e Bush senior; quasi mai, anche nei processi rivoluzionari di maggior successo, le intenzioni espresse nei programmi politici proclamati dalle forze vittoriose hanno corrisposto agli atti concreti e agli schemi prefissati; tutto questo a prescindere dalle volontà soggettive.
Se questo avviene regolarmente nel corso del conflitto tra gruppi strategici nei paesi più solidi dominanti come negli Stati Uniti degli ultimi decenni o in situazioni di contrasto violento anche in paesi secondari nel quale tende ad emergere un nuovo gruppo dirigente solido, determinato e radicato contrapposto ad un quadro istituzionale frammentato e debilitato, figuriamoci quali situazioni paradossali si possano verificare in paesi, come l’Italia degli ultimi trenta anni, dove si contrappongono centri di potere e gruppi dirigenti, costituiti per altro in minima parte dai politici da palcoscenico, tanto deboli e precari all’interno del loro paese, quanto facilmente condizionati ed eterodiretti  dall’esterno, dai centri dei paesi dominanti.
I paradossi diventano quindi dirompenti quando i centri alternativi  non hanno sufficiente pervasività nei gangli vitali, non dispongono di un importante e coerente radicamento sociale, non presentano un programma politico coerente rispetto ai due punti precedenti.
Dell’incoerenza del radicamento sociale ho già parlato; riguardo alla pervasività nei gangli vitali, il gruppo di cui è espressione Matteo Renzi è decisamente lontano da un controllo significativo tanto più necessario in una situazione di frammentazione e sovrapposizione di poteri tra le varie articolazioni dello Stato e di indebolimento significativo dei centri economici, finanziari ed associazionistici. Tanto più che a questa caratteristica strutturale si è aggiunto il fenomeno della sempre maggiore inadempienza della Pubblica Amministrazione nel dare corso all’attuazione delle leggi, un po’ per l’iperproduttività del legislatore, ma soprattutto per lo scollamento dei centri burocratici decisionali dai centri legiferanti.

Un altro fattore che ha infatti determinato l’accelerazione degli eventi è sicuramente  la quantità di nomine ed incarichi in scadenza nelle prossime settimane.
Riguardo al programma politico, la riorganizzazione istituzionale proposta da Renzi mantiene una propria coerenza; punta sulla possibilità di costituire comunque un governo eliminando il dualismo del Senato; prevede una rappresentanza delle amministrazioni locali nella nuova conformazione del Senato; punta ad una ridefinizione delle competenze tra Stato Centrale ed amministrazioni periferiche (titolo V della Costituzione); se si aggiungono le proposte trapelate dal “job act” con il quale si elimina definitivamente la distinzione tra diritto del lavoro pubblico e privato e si sancisce l’amovibilità dei quadri dirigenti pubblici, emerge anche la volontà di acquisire un controllo dell’operato della pubblica dirigenza. Sui primi due punti del programma politico, grazie all’accordo con Berlusconi, ci sono buone probabilità di conseguire l’obbiettivo. Sul titolo V e sulla riorganizzazione delle amministrazioni locali l’indicazione è troppo generica, non cita la possibilità di accorpamenti delle regioni e, soprattutto, glissa sulla forza del principale alleato su cui le regioni e le comunità possono contare: la Comunità Europea  e la sua politica di sostegno delle politiche regionali in funzione dell’indebolimento dei poteri e delle politiche nazionali. Un indirizzo costitutivo dell’Unione sin dai tempi di Monnet, negli anni ’50.

Manca, infatti, nei programmi di Renzi, un qualsiasi riferimento serio di una qualche autonomia rispetto all’attuale collocazione internazionale, alle politiche comunitarie e alla politica industriale del paese che non si limiti ad una manipolazione generica di incentivi, crediti e sgravi. Tutto lascia presagire un allineamento ancora più rigoroso riguardo alle dismissioni e privatizzazioni, alle virtù intrinseche del libero mercato. Ci sarà comunque modo di valutare sulla base dei prossimi eventi.
Quel che appare chiaro è che il dinamismo cui è obbligato Renzi si sta trasformando in un forzato parossismo indotto da evidenti pressioni esterne, in particolare degli ambienti anglosassoni e democratici americani.
Preoccupa probabilmente la precarietà e l’instabilità sociale di un paese, collocato strategicamente al centro di una zona calda, densa ormai di conflitti, ma con apparati in grado di fronteggiare con difficoltà, fortunatamente, situazioni di aperto conflitto; tanto più che occorre mettere in sicurezza le acquisizioni a man bassa operate non solo nei settori industriali strategici, ma anche in settori nevralgici come la distribuzione commerciale, l’agricoltura, nella industria di base e prossimamente nelle reti infrastrutturali di servizio.
I timori suscitati dalle proteste dei “forconi” hanno rivelato l’inquietudine che pervade le attuali classi dirigenti.

D’altro canto si cerca di cogliere l’occasione di far pagare alla potenza regionale alleata e rivale, la Germania, i costi di un parziale riequilibrio in maniera tale da integrarla ulteriormente nei circuiti e da vincolarla attraverso ulteriori legami finanziari di tipo speculativo; uno dei modi, per altro, per richiamare ad una maggiore fedeltà nella gestione dei conflitti, oggi l’Ucraina e la Moldova, un alleato un po’ “distratto”.
È lo scotto che devono pagare quelle potenze regionali che vogliono rimediare rendite di posizione a scapito dei vicini ma senza mettere in sostanziale discussione la loro sudditanza di fondo verso il dominus globale.
Il risultato sono le rivalità tra potenze minori alimentate o sedate dalla forza dominante a seconda delle contingenze politiche; un gioco a cui le classi dirigenti nostrane si sono prestate frequentemente sin dall’immediato dopoguerra scambiando una relativa indipendenza dai vicini di casa con un ulteriore asservimento verso il consueto liberatore lontano ma con solide basi piantate sul territorio nazionale.


Renzi, come in precedenza D’Alema e Veltroni, sembra confidare troppo in questi “aiutini” e in questo tipo di investitura. Rischia di essere ricacciato in breve tempo nello schema di questi ultimi venti anni, se non di assumere il ruolo di vittima sacrificale; spianerà ancora una volta la strada  più che a Berlusconi, ormai attempato, ad un eventuale suo erede, ma sempre nell’area del centrodestra.
Del resto la vera partita tra forze disposte a svolgere un ruolo complementare ma quantomeno contrattato nello scacchiere internazionale e forze disposte a conquistarsi un ruolo ben più autonomo si giocherà prevalentemente in quei centri politici e nelle forze sociali raccolte da esso.
Prima Berlusconi sparirà da quel contesto, prima si delineeranno con maggior chiarezza questi schieramenti.

Renzi non sta facendo altro che contribuire a procrastinare quel connubio nefasto per il paese.
Potrà sperare di trarre un maggiore vantaggio solo con l’ennesimo intervento di un deus ex-machina teso a sconvolgere  e disturbare l’azione del Cavaliere; da Tangentopoli in poi si sa quali figure istituzionali si sono assunte questo ruolo da protagonista.

Il risultato sarebbe per altro, più che una marcia trionfale, una affermazione temporanea di una fazione oligarchica rispetto ad altre, tutte con un potere scarsamente diffuso e soggette quindi a continui colpi di mano, facili da compiere come da ribaltare.

Giuseppe Germinario

FONTEhttp://www.conflittiestrategie.it



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