E’ sotto gli occhi di tutti che il modello mercatista, neoliberista, ha tradito promesse e speranze. Con la sua ingenua o maliziosa fiducia nella supposta efficienza dei mercati (capacità di prevenire o riassorbire le crisi e di mantenere la crescita), ha oramai palesemente dimostrato di produrre effetti contrari a quelli promessi, e rovinosi per l’economia, la società, i principi di eguaglianza, sicurezza, libertà. Con le sue ricette di quantitative easings per le banche, ha prodotto ulteriore speculazione finanziaria anziché finanziamento all’economia reale; con le ricette di austerità di spesa e rigore fiscale, ha prodotto non risanamento ma aggravamento di deficit e debito, attraverso l’avvitamento fiscale. Macroscopico il fiasco di Monti, il tecnico dottrinario, che ha alzato la pressione fiscale ottenendo come risultato più recessione e calo del gettito.
Questo approccio, smentito dai dati oggettivi, si regge ancora sul fatto che esso è stato fuso con le istituzioni, con l’autorità, con Maastricht, col FMI, col Washington Consensus, e che è divenuto, da circa un trentennio, il pensiero unico, una scolastica economica, un’ortodossia imposta: il potere si è a tal punto compromesso col neoliberismo, che non può tornare indietro, non può riconoscere l’errore. Manca, di contro, una diffusa consapevolezza che esso non è l’unico modello, che vi è almeno una alternativa ad esso, la quale ha dato ottimi frutti nel passato, ossia il modello keynesiano, il quale nacque appunto e fu inizialmente applicato per uscire dalla grande depressione del 1929, cioè dal grande fallimento dei mercati e del mercatismo, e dopo che il metodo mercatista e liberista era stato tentato per curare la recessione, e che ebbe disastrosamente fallito. Cioè si affermò in una situazione analoga all’attuale.
Pertanto non è che si stia scoprendo solo oggi che l’approccio mercatista non funziona e fa disastri: lo si sa da circa 80 anni. Però la gente non si cura della storia e le si può sempre riproporre vecchie trappole, e la mala fede continua a pagare.
Allora, torniamo a Keynes? Gli Stati devono ridurre la pressione fiscale e investire, anche a deficit, per far salire i redditi, quindi la domanda aggregata? Devono spendere in ampi e lunghi programmi infrastrutturali per garantire agli imprenditori un trend crescente che li induca a investire anch’essi e ad assumere, nella razionale aspettativa che quel trend farà sì che vi sia domanda per i loro prodotti, e che quindi i loro investimenti saranno ammortizzati e remunerati nel tempo? Gli Stati dovranno, per un certo tempo, accettare di aumentare i loro deficit e i loro debiti pubblici e i tassi che pagano su essi, finché la ripresa non si sia consolidata e gli Stati possano quindi ridurre i loro esborsi e alzare le tasse, così da rilanciare gradualmente le loro finanze, spirando di vincere, in sella al pil, la corsa contro deficit, debito e tassi, come già la vinsero nel passato?
Gravi ragioni inducono a prevedere che una ricetta keynesiana, se applicata alla situazione contemporanea, si tradurrebbe in una gigantesca implosione, in un disastro colossale, nel senso che la spesa pubblica keynesiana non susciterebbe quel boom economico che in passato consentì di riprendere il dominio del deficit e del debito pubblici. Questo perché le condizioni odierne sono ben diverse da quelle degli anni ’30 e del dopoguerra, che consentirono agli USA e ad altri paesi di applicare quella ricetta e di vincere la rincorsa sull’indebitamento. Quelle condizioni, oggi perdute, erano:
-lo slancio e il bisogno della ricostruzione postbellica;
-il primato industriale e l’assenza di competitori manifatturieri (soprattutto di quelli a bassissimo costo del lavoro);
-la stabilità del Dollaro come valuta di riserva, convertibile in oro e non ancora inflazionato;
-il basso costo e l’abbondanza delle materie prime;
-la robusta crescita demografica e il favorevole rapporto tra giovani e anziani;
-i mercati ampiamente insaturi e in espansione;
-un’economia reale non sottomessa e perturbata da quella finanziaria;
-la possibilità di finanziare il debito pubblico senza essere sottoposti alle speculazioni dei mercati.
Oggi queste condizioni sono dissolte o addirittura capovolte, onde reputo che una ricetta keynesiana, quand’anche corretta e raffinata (ossia che avesse cura di non destinare soldi alla spesa corrente e alle assunzioni facili, ma solo a investimenti produttivi e infrastrutturali utili), oggi fallirebbe, e che perderemmo la corsa col deficit, col debito e coi tassi che tale opzione scatenerebbe. Reputo, cioè, che ci ritroveremmo in breve coi tassi alle stelle, il deficit fuori controllo e un debito smisurato, senza aver però ottenuto una vcera ripresa dell’economia generale, senza cioè un idoneo aumento del pil. Così è avvenuto in Giappone quando il Governo, per rilanciare l’economia depressa a seguito del crollo del 1991, ha fatto grandi interventi di spesa pubblica ottenendo poco o nulla sul piano del rilancio, ma appesantendo notevolmente le finanze pubbliche. Solo che il debito nazionale giapponese viene comperato dai cittadini giapponesi a tassi moderatissimi, quindi è sostenibile, mentre, se fossero paesi come Italia, Spagna e Grecia a chiedere ai mercati di comperare ulteriore debito pubblico per finanziare un piano di investimenti keynesiani, forse non riuscirebbero nemmeno a collocarlo, e se ci riuscissero… sarebbe peggio.
La ricetta keynesiana è stata collaudata per diversi decenni, ma una sola volta, cioè entro un processo di crescita complessivamente costante dell’Occidente. Oggi quel processo è storia, e la ricetta verosimilmente non funzionerebbe, e questo sicuramente a Berlino lo si capisce. La Merkel ha un fondamento di ragione nel rifiutarsi di acconsentire a manovre keynesiane. Ma se ha ragione la Merkel, e non vi è altro da fare che proseguire la marcia funebre intorno al baratro in attesa di caderci dentro, allora meglio spararsi subito. In realtà si può uscire dall’alternativa di questi due approcci sbagliati e fallimentari entrambi. Per farlo bisogna superare il piano comune a keynesismo e mercatismo, e alle loro rispettive ricette.
Incominciamo rilevando che il dibattito monetario tra mercatismo e keynesismo è un dibattito su opzioni riguardanti il trasferire risorse monetarie, i tassi di interesse, le agevolazioni, etc. Al più, si parla di creare risorse monetarie aggiuntive (come si farebbe con gli eurobond). E’ un dibattito, insomma, tutto sugli aspetti quantitativi della moneta. Esso ignora completamente gli aspetti qualitativi di essa. Non si parla, cioè, delle opzioni circa i tipi di moneta da usarsi e il loro “genoma”. Né delle “malattie” genetiche delle monete stesse. Ma prima ancora delle variabili e delle variazioni quantitative della moneta – quanta ve ne è nel mercato e a che prezzo e condizioni – e dei loro effetti sull’economia, nonché degli interventi su queste variabili, esistono variabili e variazioni qualitative delle monete. E possibilità di intervenire anche su di esse, sulle proprietà delle monete, ad esempio per superare una depressione.
Pretendere di trattare una crisi finanziaria lavorando solo sulle quantità della moneta, è assurdo esattamente come pretendere di trattare un paziente con uno squilibrio alimentare regolando soltanto quanto e quando il paziente deve mangiare, e non regolando che cosadebba mangiare o evitare.
Invero, esistono differenti tipi di moneta possibili, con differenti funzionamenti, differenti possibili tipi di banche centrali e di banche di emissione . Ovviamente, dicendo “tipo di moneta” non intendo semplicemente le banconote o i saldi attivi dei depositi bancari e simili, ma intendo sistemi monetari, ossia i meccanismi di generazione, cessione, prestito, cambio, contabilizzazione, delle monete, e pure di loro sostituzione con siste3mi di unità di conto e clearing multilaterale.
Si tratta quindi di andare a guardare dentro la moneta, nel suo “genoma”, nel potenziale di questo. A questa esplorazione e alla conseguenti proposte risolutive si rivolge un saggio che sto ultimando, sotto il provvisorio titolo di Evitare l’€urolager, e che prevedo uscirà a settembre presso MacroEdizioni – Arianna.
A ogni tipo di moneta corrispondono specifiche conseguenze strutturanti per la società e l’economia, che inizialmente sono sovente impercettibili quindi non vengono considerate, non vengono capite, ma poi si amplificano e si fanno sentire nel tempo, fino a produrre distorsioni e crisi di insostenibilità, fratture di sistema, a livello nazionale, internazionale e globale – perché anche il mondo, nel suo complesso, adotta monete globali, come ora il Dollaro, e prima del 1929 la Sterlina. Il Dollaro è, al contempo, moneta nazionale USA e moneta globale – il che produce specifici vantaggi e specifici squilibri, come è noto. Conferire al Dollaro questa anfibolica funzione fu la scelta di fondo di Bretton Woods. Ma molti altri sono le malattie della moneta su cui agire, iniziando da quella detta della “moneta-debito” e continuando con l’equivocazione tra moneta e merce, i criteri contabili difformi dalla realtà economica e giuridica della moneta e del credito, la logica del monopolio monetario.
Il risanamento della qualità della moneta creerebbe un potente strumento per la ripresa economica su basi stabili e razionali, ma, ovviamente, non assicurerebbe che una tale ripresa effettivamente avvenga, perché una ripresa economica richiede l’interazione di molti fattori, diversi dei quali prettamente umani, emotivi, non prevedibili né telecomandabili. La qualità della moneta non basta: occorre anche quella delle società: fiducia sociale, fare sistema, libertà da strutture di potere e consenso distorsive e parassitarie, favorevole rapporto tra occupati e pensionati. Presupposti assenti in alcuni paesi, tra cui l’Italia. Ecco perché qui Keynes non può funzionare. Nei paesi mediterranei come l’Italia, la Spagna e la Grecia, tutti gli interventi in suo nome porgerebbero il fianco a tangenti, clientele, distorsioni, diseconomie. A Berlino si sa benissimo che cosa vuol dire “spesa pubblica” in Italia (e probabilmente anche in Grecia, Portogallo, Spagna…): si sa dei posti di lavoro inutili, creati clientelarmente anche in questi giorni (vedi Sicilia); si sa che gli appalti moltiplicano regolarmente il loro costo in corso d’opera, e che, specialmente in quelli grandi, le mafie la fanno da padrone… e che ben poco fa o può la “giustizia”, spesso minacciata o corrotta, come bene descritto nel libro del giudice Imposimato Corruzione ad Alta Velocità. E allora quando si dice, anche da parte di un Monti, “rilanciamo l’economia con la spesa pubblica”, si può facilmente prevedere che sarà una spesa incapace di migliorare l’efficienza del paese e che alimenterà la criminalità organizzata e la partitocrazia. Posso perciò ben capire l’ostinazione della Germania a lasciar andare a fondo i mediterranei, organismi sociali non più vitali, non più capaci di reazioni correttive e adattative, da decenni ormai. Che altro c’è da fare? Quando le civiltà sono finite, meglio lasciarle andare: appartengono ormai solo al mondo del passato e all’archeologia.
18.06.12 Marco Della Luna
Ringrazio Marco Della Luna per l''invio dell'articolo - EM
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