Non dormono nelle stazioni ferroviarie,
non vanno a mendicare la minestra alla Caritas, non si rivestono di stracci ma,
come i barboni, sono invisibili.
Sono i magistrati che guidano e
sorvegliano l’amministrazione penitenziaria italiana.
Si parla poco di loro, anzi quasi niente
eppure il loro ruolo nelle pagine più oscure ed ignobili della guerra politica italiana è stato – e
continua ad essere – rilevante.
Non si può esprimere un giudizio sulla
complicità della magistratura italiana con il potere politico e militare nella
guerra civile degli anni Sessanta e Settanta. Se non si illumina insieme a
quello della magistratura inquirente e giudicante l’operato
di quella penitenziaria e di sorveglianza.
Se il carcere italiano è una delle
vergogne del Paese, lo si deve al fatto che i controllati, i vertici del Dipartimento dell’amministrazione
penitenziaria, sono i controllori di sé stessi perché come magistrati godono
della complicità e del sostegno dei loro colleghi inquirenti, giudicanti e di sorveglianza.
Se giudichiamo la magistratura italiana
sotto il profilo della omertà che la distingue, più che di ordine giudiziario
dovremmo parlare di associazione giudiziaria che nulla ha da invidiare a quelle che compongono la galassia della
criminalità organizzata.
Certo, il Consiglio superiore della
magistratura interviene contro quei magistrati che si macchiano di reati comuni, ma se questi ultimi
attengono alla sfera politica scatta immediata ed inesorabile la protezione e
la copertura che si ritengono necessarie per proteggere non tanto il decoro ed
il prestigio dell’ordine quanto le responsabilità dello stesso sostegno al
potere politico da cui si vanta sulla stampa di essere indipendente.
I misteri del carcere non sono mai stati
affrontati né chiariti sul piano giudiziario, e tanto meno, su quello storico e
giornalistico.
Eppure, ad esempio, sarebbe di estremo
interesse sapere perché i magistrati del Dap, in concorso con quelli
responsabili della inchiesta a Torino sulle Brigate rosse, decisero di
richiudere Renato Curcio, subito dopo il suo arresto avvenuto l’8 settembre
2974, nel carcere di Casale Monferrato, poco più che un mandamentale dove, al
massimo, ci portavano i ladri di polli.
Ma Curcio, all’epoca, sera considerato il
capo delle Brigate rosse e come tale, secondo logica, avrebbe dovuto essere
rinchiuso in un istituto di pena sicuro, da dove non avrebbe potuto evadere.
Viceversa, come previsto, pochi mesi dopo
l’arresto Renato Curcio scappa con l’aiuto di Mara Cagol e di alcuni suoi
compagni.
Chi voleva - e per quali ragioni – che
Renato Curcio Tornasse libero?
La domanda è sempre rimasta senza
risposta.
Dopo che la rivista dei “neofascisti” di
Questura e di servizio, “Quex”, accusa Ermanno Buzzi, accusato di concorso
nella strage di piazza della Loggia a Brescia il 28 maggio 1974, il Dap decide
che deve essere trasferito da carcere di
Brescia a quello di Novara dove sono rinchiusi i cosiddetti estremisti di
destra.
Ermanno Buzzi ha paura di morire, e non
lo nasconde.
In tanti si prodigano perché l’ordine di
trasferimento venga revocato, ma ogni intervento è inutile perché i magistrati
del Dap non recedono dalla loro decisione.
Buzzi viene ucciso il 13 aprile 1981, nel
cortile dell’aria del carcere di Novara, dal poliziotto ausiliario Mario Tuti e
da Pierluigi Concutelli, istigato dal primo.
Perché qualcuno al Dipartimento dell’amministrazione
penitenziaria, a Roma, aveva deciso che Ermanno Buzzi doveva morire?
La domanda è rimasta senza risposta.
Nel mese di maggio del 1982, a Roma, la
polizia arresta alcuni appartenenti alla disciolta “Avanguardia nazionale”, fra
i quali Carmine Palladino che, unico fra gli imprigionati, mostra segni di
cedimento.
Puntuale e mortale giunge la decisione
dei magistrati del Dap che dispongono il trasferimento di Palladino nel carcere
di Novara dove verrà ucciso il 9 agosto 1982, da una decina di “neofascisti” fra
i quali Pierluigi Concutelli, nel cortile dell’aria.
Chi ha deciso che l’ “anello debole” fra
gli arrestati di “Avanguardia nazionale”, Carmine Palladino, doveva morire?
La domanda è rimasta senza risposta.
Il ruolo dell’amministrazione
penitenziaria, ai suoi più alti livelli, nel caso di Ciro Cirillo, l’assessore democristiano
sequestrato a Napoli dalle Brigate rosse e liberato per l’intervento della
Nuova camorra organizzata diretta da Raffaele Cutolo, è noto.
E’ singolare però che anche in questo
caso dove si è apertamente parlato di trasferimenti richiesti da Cutolo,
seguiti da omicidi all’interno di istituti di pena compiuti dai suoi affiliati,
i magistrati del Dap sono riusciti a restare al di fuori del processo. Eppure
solo loro avevano l’autorità per disporre i trasferimenti richiesti dal capo
della Nco.
Abbiamo quindi dinanzi a noi una sacca di
impunità resa possibile dall’incapacità, ma forse sarebbe meglio dire volontà,
dei magistrati inquirenti di non indagare sui loro colleghi penitenziari che si
ritrovano in questo modo liberi di agire a loro piacimento decidendo della vita
e della morte di detenuti che, con motivazioni varie, sono scomodi per lo Stato
e per il regime.
Non c’è solo la morte all’interno degli
istituti di pena italiani. I magistrati penitenziari sanno anche elargire vita,
e vita comoda, a quanti hanno saputo guadagnarsi la riconoscenza dello Stato.
E’ il caso di Mario Moretti, esemplare
per denunciare l’ipocrisia della magistratura italiana e la sua volontaria
compartecipazione ai giochi del potere politico.
Moretti è il nominale capo delle Brigate
rosse, ma è soprattutto l’uomo che ha materialmente sparato su Aldo Moro,
rinchiuso nel portabagagli di una Renault rossa il 9 maggio 1978.
Il regime politico ha dedicato la
giornata della memoria alle vittime del “terrorismo” ad Aldo Moro, celebrandola
proprio il 9 maggio di ogni anno.
Contestualmente ha però concesso a Mario
moretti lo status di dirigente del carcere di Opera, affidandolo alle cure del
direttore Aldo Fabozzi che tanta attenzione amorevole ha avuto nei confronti
dell’ormai potentissimo detenuto.
Ristretto, come si conviene ad un “vip”,
nel centro clinico del carcere benché godesse di ottima salute, scortato da un
brigadiere e tre agenti quando si recava a colloquio, inserito fra i dirigenti della
“Lombardia informatica”, insieme all’ex confidente del Sid Vito Messana, Mario
Moretti ottiene il primo premesso premio nel 1993, a
distanza di dodici anni dal suo arresto; due anni più tardi, nel 1995, è
rimesso al lavoro esterno, nel 1997 ottiene infine la semi-libertà.
La motivazione dei benefici di legge
concessi a Mario Moretti è quella che non è pentito, ma dissociato, non è
ricreduti, non è ravveduto ma ha ammesso, bontà sua, nel 1993 che la “lotta armata”
è fallita.
Non è una barzelletta oscena, ma la
motivazione con la quale il tribunale di sorveglianza di Milano ha concesso la
semilibertà a Mario Moretti.
Se all’interno del carcere di Opera
Moretti era la “pupilla” degli occhi di Aldo Fabozzi, di cui certamente avrà un
grato ricordo, il Tribunale di sorveglianza di Milano si pone alla pari dei magistrati
del Dap che, da parte loro, si avvalgono della complicità dei giudici che hanno
indagato sul conto di Mario Moretti per il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro
e della sua scorta, esprimendo parere favorevole alla concessione dei benefici
di legge.
Non è una storia italiana. E’ una storia
di un’Italia ignobile politica, penitenziaria e giudiziaria, che premia un
infame che ha tradito morti e vivi per avere vita, benefici e privilegi.
Se qualcuno non lo ha compreso, in una
battaglia politica contro uno Stato ed un regime, è infame che tace o accusa i
suoi per compiacere la magistratura ottenendo il riconoscimento di “pentito” o di
“dissociato”.
Mario Moretti è l’infame che tace pagato
per recitare come un pappagallo il ritornello che “dietro le Brigate rosse c’erano
solo le brigate rosse”.
Aldo Moro ha fallito anche in morte,
quando ha profetizzato che il suo sangue sarebbe ricaduto sulla testa dei suoi
compagni di partito.
Invece, con la sua morte Francesco
Cossiga e Giulio Andreotti hanno conosciuto una sfolgorante carriera politica.
E sul suo sangue Mario Moretti ha fondato
la sua fortuna di direttore onorario del carcere di Opera, temuto, potente, intoccabile, che lavora
da 22 anni come dirigente della “Lombardia informatica” ed ha maturato ormai la pensione che Renato
Curcio, altro fallito rivoluzionario, invoca allo Stato per il lavoro svolto in
carcere.
Ma Renato Curcio non ha ammazzato Aldo
Moro, quindi che pretende? Che lo Stato gli riconosca la pensione?
All’interno del carcere italiano c’è chi
muore, c’è chi ha vita precaria, chi vive bene, chi vive meglio, dipende dalla
magistratura nel suo complesso, quella inquirente, giudicante, di sorveglianza
e penitenziaria.
E quest’ultima è quella che è sempre
riuscita a restare fuori dalle inchieste, dai processi, dalla luce dei riflettori
mediatici perché capace di rendersi invisibile, di lavorare nell’ombra pronta a
scaricare ogni responsabilità sui subalterni, disposta sempre ad esaurire ogni
desiderio che provenga dal potere politico o dai suoi apparati di sicurezza.
E’ storia, questa della magistratura
penitenziaria, sulla quale ritorneremo ancora perché la verità passa anche per
le oscure attività del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e dei
suoi magistrati.
E’ storia che deve essere conosciuta da
quanti aspirano ad avere la verità sulla guerra politica italiana nella quale l’amministrazione
penitenziaria ha ricoperto un ruolo importante, in certi casi decisivo.
Non è storia di sole vittorie, fatta di
morti ammazzati, di pentiti e di dissociati, di ricreduti e privilegiati, ma
anche di fallimenti, come dimostra il fatto che a scriverla è chi con i Fabozzi
ed i Siciliano, i Caselli, i Coiro, gli Amato, i Tamburino, ha oltre 33 anni di
scontri, condotti a testa alta.
E la scriveremo da carcere di Opera senza
chiedere il premesso a Mario Moretti e ad Aldo Fabozzi, ai loro colleghi e ai
servizi segreti che tanto contano sul loro apporto, oggi come ieri e come
sempre.
Vincenzo Vinciguerra
(Opera,
16 settembre 2012)
Nessun commento:
Posta un commento
Scrivi un tuo commento: