A quattro anni di distanza dall’assegnazione del
primo premio Nobel per la pace preventivo, Barack Obama si è fermato
sulla soglia del quarto intervento militare diretto avviato da uno
stesso presidente americano. Un bel bottino, suscettibile di essere
ulteriormente rimpinguato nei tre anni di incarico rimastigli a
disposizione; sempre che riesca a completarli. Uno scomodo trofeo che dà
un senso evidente all’imbarazzo con il quale accettò allora un
conferimento fondato in realtà sulla mera retorica del suo discorso al
Cairo, nel giugno 2009. Se non sapeva, almeno presagiva il reale corso
degli eventi che si sarebbero succeduti.
Quella prolusione tenuta all’università egiziana
voleva essere un inno alla tolleranza religiosa e alla accettazione del
rispetto dei diritti umani; sancì, in realtà, il trionfo definitivo di
una linea restìa al massiccio intervento militare diretto a terra e
propensa a privilegiare altrimenti la partecipazione attiva al gioco
delle rivalità tra le fazioni, soprattutto religiose, e tra i fragili
stati in particolare lungo la fascia estesa dal Nord-Africa, ai Balcani
sino al Pakistan nel tentativo poco originale, perché già altre volte
conclamato, di costruire una sorta di cordone sanitario antirusso.
Non è stata una svolta repentina ed inattesa; si
tratta di scelte, ancora in corso, tutte interne al solco di una delle
tradizioni politiche americane ma che, nell’attuale contingenza, hanno
cominciato ad affermarsi, paradossalmente, già a metà della presidenza
repubblicana di Bush Junior, con una figura politica, quindi, portatrice
originaria di altre strategie. L’evidente imbarazzo con il quale la
presidenza Bush dovette affrontare la crisi georgiana e concedere al
fido Berlusconi un ultimo sussulto di iniziativa diplomatica seguita
alla aperta condanna dell’intervento militare georgiano naufragato
miseramente contro la reazione russa era il segno evidente dell’emergere
di una nuova linea di azione di nuovi centri di potere americani.
Il georgiano Saakashvili doveva essere caduto nella
stessa trappola, anche se con esiti meno drammatici, tesa a Saddam
Husseyn diciassette anni prima al momento dell’occupazione del Kuweit;
qualcuno, nelle segrete stanze americane, doveva avergli garantito
sostegno militare o, quantomeno, copertura politica ad un intervento
apparentemente temerario.
Quell’intervento, invece, era il segnale preciso e
definitivo della fine di ogni tentazione e velleità di ripristino di
gestione bipolare delle cose del mondo sotto l’egida della lotta al
terrorismo integralista tra la potenza assolutamente dominante e la
nuova Russia di Putin, in qualche modo ricostruita e liberata
dall’aperto condizionamento predatorio statunitense.
Nella storia americana, come di altri paesi, la
condizione paradossale vissuta dalla amministrazione Bush, nella sua
fase conclusiva, non è stata una eccezione unica e nemmeno così rara. In
tempi recenti, l’amministrazione Carter dovette in qualche modo, nella
fase finale del mandato, smentire se stessa e avviare le politiche di
riarmo strategico, di detassazione e riforma del welfare messe in atto
trionfalmente, poi, dall’amministrazione Reagan. Lo scotto da pagare di
questi ripensamenti è, di solito, il sacrificio politico del
traghettatore visto come emblema di politiche fallimentari e “traditore”
degli interessi e delle visioni coalizzate originariamente.
Queste fasi di transizione rivelano, in realtà, come
il conflitto tra centri di potere strategici e la prevalenza e
affermazione di una coalizione di questi a scapito di altri assumano
dinamiche diverse e relativamente autonome rispetto a quelle di
formazione del consenso politico e dei blocchi sociali di sostegno a
tali scelte; le caratteristiche e l’adeguatezza e flessibilità delle
istituzioni ne determinano, invece, le peculiari modalità di
svolgimento.
L’originalità dell’amministrazione Obama consiste
invece nella inedita solidità e nella impressionante concentrazione di
potere nei centri dei quali è espressione, tipica di situazioni di
guerra generalizzata come in quelle mondiali del secolo scorso,
piuttosto che di conflitto endemico ma in qualche modo controllato come
nella fase attuale.
Una concentrazione e solidità tale da far superare,
per il momento, scandali e infortuni di una gravità di gran lunga
superiore a quelli che hanno determinato a suo tempo la defenestrazione
di Nixon e l’indebolimento di Clinton; ma anche una estensione pervasiva
del potere di questi centri consentita dal collante ideologico dei
diritti umani e sociali tale da raccogliere attorno a particolari
settori del complesso militare-industriale (quello più tecnologico), a
quelli burocratici e finanziari, per finire con quelli energetici e di
alcuni settori tradizionali (vedi automobile) i settori cosiddetti
liberal della società americana.
Questo particolare sodalizio, con modalità diverse,
ha però quasi sempre spinto le amministrazioni americane alle forme di
interventismo più subdole e distruttive, non ostante la vulgata conceda
rappresentazioni esattamente opposte della loro storia.
Nella fattispecie recente, constatata per di più la
pratica impossibilità di procedere alla progressiva occupazione militare
di buona parte del Grande Medio Oriente, mallevatrice della
“democrazia”, si è così passati dalla prevalenza dell’occupazione
diretta del terreno da parte di militari americani armati di fucili e
letteralmente di sacre scritture bibliche propugnata da Bush in Iraq e
Afghanistan al sostegno e alla fomentazione di particolari fazioni a
scapito di altre, di particolari ambizioni regionali di alcuni paesi ai
danni di altri. Una svolta indotta tanto più dal progressivo
assottigliarsi del numero di alleati disposti a partecipare alle
avventure militari della potenza dominante, dalla reazione al dominio
predatorio subito negli anni ’90 da alcuni grandi paesi (Russia in primo
luogo, alcuni paesi sudamericani in subordine) e dall’emergere di altre
ambizioni di vario peso(Cina, India, ect).
Dal capolavoro strategico dell’alleanza ecumenica
della prima guerra in Iraq ai primi ‘90, gli Stati Uniti sono passati
quindi progressivamente alla solitudine prima orgogliosa, rivendicata e
poi risentita della guerra in Iraq ed Afghanistan agli inizi del 2000,
ma con la tentazione, in quest’ultima fase, di ripristinare un rapporto
particolare con la Russia di Putin.
Una tentazione appena espressa, coltivata più dal versante russo che americano.
Risistemate in qualche maniera le cose in casa
propria ai danni degli oligarchi russi più riottosi, particolarmente
sensibili alle sirene globaliste nel loro ruolo di complemento di lusso,
esaurite le residue illusioni su di una Unione Europea più autonoma dai
disegni statunitensi, a Putin e alle forze da lui espresse parve
praticabile, agli inizi del 2000, una alleanza su basi meno squilibrate
con la nuova leadership americana fondata sulla lotta al terrorismo
islamico; attraverso essa l’auspicio era di pervenire ad un compromesso
più duraturo con le forze filooccidentali interne al proprio paese e ad
una cooperazione economica su basi più paritarie che consentisse lo
sviluppo industriale moderno della Russia.
Ma quello che gli Stati Uniti hanno consentito alla
Cina con particolare generosità, hanno concesso alla Russia con estrema
parsimonia. Sicché la Russia di Putin ha potuto tessere le proprie trame
geopolitiche fondandole quasi esclusivamente sulle proprie risorse
energetiche e di materie prime senza riuscire a sviluppare ancora
adeguatamente una economia complessa sufficiente a garantire le risorse
ad una politica estera più articolata e solida e ad una formazione
sociale più coesa; tendono a riproporsi in dimensioni e forme diverse,
quindi, i limiti tipici dell’Unione Sovietica la cui economia era
relativamente sviluppata in alcuni settori del complesso militare
industriale senza che il sistema politico riuscisse a trasmettere
adeguatamente al settore civile le capacità tecnologiche acquisite.
Dispone dell’opportunità ma anche dell’apprensione di avere vicini di
casa di dimensioni gigantesche e ambizioni crescenti con i quali
stabilire una alleanza circospetta tesa a tamponare lo strapotere e
l’avventurismo americano e ai quali offrire le proprie risorse naturali
in alternativa ai tradizionali acquirenti occidentali. Per il momento i
propositi cominciano a realizzarsi; i contenziosi, a cominciare dallo
sfruttamento delle risorse in una regione spopolata e permeabile come la
Siberia e ormai frammentata come in Asia Centro-Occidentale, sono
alquanto insidiosi e la capacità di resistenza, soprattutto della Cina,
alla accresciuta pressione americana sul Pacifico e sul suo limite
occidentale ancora tutta da verificare. Un cedimento, in un contesto di
ancora stretta integrazione con l’economia americana, potrebbero indurla
a scegliere avversari meno temibili e più abbordabili secondo le
proprie capacità.
Con lo stallo subìto nell’intervento afghano-iraqeno e
con le ripercussioni economiche e sociali legate alla crisi di questa
politica espansionista maturano le condizioni dell’avvento del nuovo
profeta di guerra, travestito da esportatore filantropo dei diritti
umani e fautore di cooperazione multilaterale.
Un modo, ma anche una convinzione e una motivazione, è
bene sottolinearlo, che consente di discernere nei vari paesi i buoni
da sostenere dai cattivi, magari fedeli collaboratori del giorno prima,
da osteggiare e liquidare e di vellicare le ambizioni regionali di
potenze e paesi minori a scapito dei vicini.
Una strategia il cui successo pieno ha bisogno di due
condizioni essenziali: il controllo e l’orientamento di quelle
ambizioni in funzione dei bersagli strategici e lo stretto legame con le
élites locali, il più possibile affini, impegnate in questi propositi.
Come ogni strategia seria, ad un obbiettivo di
massima corrisponde, solitamente, un obbiettivo minimo che nella
fattispecie consiste nella frammentazione progressiva delle realtà
statuali e in una situazione di perenne instabilità e conflitto alle
porte degli avversari più temibili (Russia e poi Cina) o degli alleati
più potenti (paesi europei); l’uno, ovviamente, non antitetico
all’altro.
La prima condizione continua in qualche maniera a
realizzarsi almeno nella fascia strategica del Grande Medio Oriente, ma
con qualche crepa preoccupante. La situazione, però, rispetto alla
situazione degli anni ’80, periodo in cui si sono innescati questi
processi, è ancora largamente favorevole agli Stati Uniti.
Molto più problematica e sfuggente è la seconda;
proprio l’illusione delle primavere arabe ha rivelato la debolezza e la
inconsistenza di borghesie liberali, slegate dagli interessi nazionali
di quei paesi e incapaci quindi di assumerne la guida; capaci di
avviare, con la compiacenza di settori dello stato, le proteste ma del
tutto impreparate a gestire la transizione.
Una condizione che gli americani dovevano ben
conoscere visto che i primi sostegni massicci alle componenti islamiche
avverse ai regimi nazionalisti risalgono a metà del decennio scorso,
mettendo a frutto l’esperienza ed i legami consolidati durante la guerra
civile jugoslava, in particolare in Bosnia e Kosovo.
Più la componente liberale urbanizzata si è rivelata
inconsistente, più la tattica della fomentazione ha poggiato sui gruppi
islamici peggiori più radicali e tribali; più il dirittoumanitarismo è
costretto ad appoggiarsi a veri e propri pendagli da forca per garantire
la “libertà” alle popolazioni ingrate. Un contrasto sempre più
evidente, che rende sempre meno credibile e autorevole l’interventismo
americano. È sufficiente paragonare la preparazione mediatica con la
quale sono stati preparati gli interventi in Iraq e in Jugoslavia,
rispetto all’approssimazione dei successivi per stigmatizzare
l’arroganza e la sicumera, ma anche la fragilità e l’imbarazzo
dell’attuale élite dominante americana poco prima impegnata contro i
suoi attuali beneficiati.
Come nella prima fase di decolonizzazione, il
tentativo surrettizio di introdurre in società di tipo clanico o tribale
istituzioni di tipo occidentale ha portato alla dissoluzione caotica
oppure alla oppressione “democratica” di un clan sull’altro.
Il conflitto in Siria rappresenta il più serio intralcio e, probabilmente, il punto di svolta di questa strategia.
Iniziato con la rapida trasformazione di
manifestazioni di protesta in attacchi militari, grazie all’opera di
provocazione e cecchinaggio di gruppi infiltrati ai danni della polizia e
dei militari, l’opposizione ha perso via via il sostegno popolare, mai
maggioritario ed è caduta nelle trame dei giochi politici delle potenze
regionali, rendendo impossibile una vittoria sul campo; si è alimentata
sempre più del sostegno economico, militare e politico di Turchia,
sauditi, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti; ha sopperito agli scacchi
militari attingendo sempre più, ormai esclusivamente, all’inesauribile
movimento panislamico sunnita perdendo sempre più il carattere di
movimento nazionale, già piuttosto evanescente sin dalle origini. Un
avvicendamento di forze che richiede una notevole organizzazione ed una
notevole capacità finanziaria e di controllo sociale con migrazioni che
partono ormai anche dal Pakistan e dall’Afghanistan. Un flusso che
rischia di spossare e che sta costringendo sempre più le forze siriane
lealiste ad appoggiarsi, a loro volta, sul sostegno militare esterno. Il
conflitto è ormai internazionalizzato e rischia di creare problemi alla
stabilità dei paesi vicini, in primo luogo la Turchia. La concreta
minaccia americana di intervento diretto non ha fatto altro che
provocare e sancire formalmente l’ingresso diretto delle potenze, di
Stati Uniti e Russia apertamente, della Cina ed altri paesi dietro le
quinte, nella gestione della crisi. Le dichiarazioni del Governo siriano
sulla situazione di stallo del conflitto sul campo, in contraddizione
con il trionfalismo di pochi giorni prima, sembrano propedeutiche
all’ingerenza delle potenze, così come gli avvertimenti del governo
russo a quello siriano, il suo auspicio ad una politica di controllo del
nucleare in Iran, l’appello al rispetto del ruolo dell’ONU il quale
continua ad operare secondo il criterio del diritto di veto,
rappresentano la probabile concretizzazione dell’impegno di Obama,
sussurrato nelle orecchie di Medvedev pochi mesi prima della sua
rielezione alla Casa Bianca, a un riconoscimento dello status di
potenza. Un riconoscimento che prevede momenti di scontro e di
connivenza.
L’attuale squilibrio di forze consente al più debole
di indossare le vesti del paladino della sovranità dei paesi; man mano
che il processo di polarizzazione procede, il conflitto acuto non
riuscirà a nascondere il loro interesse comune a costringere i paesi
minori a schierarsi.
Le vittime designate di questo gioco sono,
soprattutto, al momento, la indipendenza e l’autonomia dei paesi più
piccoli o più fragili e la Siria pare, comunque, essere la prossima
vittima designata; il fatto stesso che le trattative stiano partendo dai
depositi di gas e dalla limitazione nucleare di Siria e Iran quando
altri della stessa area geografica possono fruirne tranquillamente, la
dice lunga sul reale obbiettivo di queste trattative.
Una situazione di conflitto multipolare può però
consentire nel contempo ai paesi più attrezzati di ritagliarsi una
condizione di neutralità, per quanto problematica da sostenere.
Già la guerra di Libia e ancor di più il conflitto in
Siria hanno reso evidente che il discrimine ideologico e quello
religioso consentiranno sempre meno di discernere e comprendere le
dinamiche in corso; il conflitto, oltre che tra stati, contrappone
costantemente all’interno di essi centri strategici diversi alla
costante ricerca di collegamenti e di influenze con esiti spesso
paradossali e contraddittori. Le modalità di conflitto nei paesi
dominanti sono diverse da quelle dei paesi subordinati o marginali e il
più delle volte gli imput partono dalle dinamiche dei paesi al vertice
della gerarchia.
La presenza di élites nazionali ben determinate può
consentire livelli diversi di subordinazione se non di vera e propria
autonomia e neutralità attiva; le dinamiche all’interno dei singoli
paesi sono quindi determinanti, il più delle volte, nella loro peculiare
formazione.
Per fortuna la coperta che può coprire il mondo è
ancora troppo stretta. L’importante è che la risorsa ultima non si
riduca al rifugio disperato nella protezione dei santi.
L’esito dell’ultimo G20 lo ha dimostrato, con la defezione di numerosi paesi dalla posizione americana
Già la venerazione di Sant’Obama ha imbambolato vaste
schiere di paladini della libertà e dei diritti; l’ascensione
all’Olimpo di San Vladimiro non farebbe che accecarne di ulteriori e
annichilire ogni residua speranza di redenzione per il nostro paese. Una
predisposizione, quella della facile venerazione, purtroppo
atavicamente ben radicata tra le genti italiche.
Con i diavoli bisogna spesso e volentieri accordarsi;
guai, però, a riconoscere loro l’aura di santità. L’abbaglio
impedirebbe di individuare in tempo il momento inevitabile del
tradimento e delle trappole, soprattutto in un paese in cui la propria
classe dirigente da decenni non fa che ricorrere allo spauracchio del
vincolo esterno per dare forza alla propria inettitudine e dove, dalla
fine dell’impero romano, ha reagito raramente all’accondiscendenza;
quando lo ha fatto con reazioni velleitarie piuttosto che con la
paziente costruzione di solide fondamenta.
Giuseppe Germinario (22/09/2013)