Ci sono diversi modi di fare impresa. In Italia, paese
prediletto da scorribande capitalistiche di ogni genere, li abbiamo visti e
subiti praticamente tutti (a chi non l’avesse letto consiglio “Eroi e
cialtroni: 150 anni di controstoria.”, di Augusto Grandi e Teresa Alquati). C’è,
innanzitutto, l’esempio, ormai trionfante, di taglio prettamente finanziario
che vede nell’Ingegner De Benedetti il suo vate nostrano. Come è noto, costui
prende il mano la Olivetti ,
che nel 1965 (!) aveva presentato il primo modello di calcolatore elettronico
portatile, e, quando, il mercato diventa planetario e l’impresa italiana
potrebbe dirvi la sua, decide che non sia conveniente produrre personal computer
in Europa. Allora realizza il suo guadagno personale e mette in crisi un intero
distretto che viveva intorno alla creazione di Adriano Olivetti. All’estremo
opposto, c’è il modello personificato da Carlo Vichi che, con la sua azienda
produttrice prima di radio e poi di televisori, ha rappresentato uno spaccato
importante, poco conosciuto ed ancor meno apprezzato, di quello che era l’industria
italiana nel secolo scorso.
Qualche giorno fa, ho letto che anche
Vichi abbandona il settore. La sua Mivar di Abbiategrasso sospenderà la
produzione entro la fine dell’anno, quasi tutti gli operai andranno in mobilità
e, non solo in Italia ma in tutta Europa, non si fabbricherà più un apparecchio
televisivo. Anche i tedeschi hanno abbandonato da tempo questo settore.
Non mi intendo e non mi interesso di
tecnologia e non riesco a percepire la differenza che passa tra un televisore
ed un altro. Non sono quindi in grado di dare giudizi tecnici o di fare
confronti. Ma, l’anno scorso, costretto dal digitale terrestre, ho voluto
acquistare anch’io un Mivar, intuendo che avrebbe potuto essere uno degli
ultimi in circolazione. Mi pareva un doveroso attestato di stima verso chi
aveva resistito tanto di fronte ai colossi orientali che utilizzano gli schiavi,
dando nel corso degli anni lavoro a parecchi italiani, nell’indifferenza (o
malafede?) di coloro che, a livello istituzionale, avrebbero dovuto difendere e
promuovere le nostre eccellenze (un altro esempio? La Richard Ginori che, dopo essere
stata fondata nel 1735 ed aver prosperato per più di due secoli nel settore
della porcellana di lusso, nel dopoguerra ha dovuto subire anche le attenzioni
di Michele Sindona e Salvatore Ligresti, arrivando sull’orlo del fallimento).
Ma siccome la politica italiana non ha tutelato le realtà pubbliche, anzi le ha
liquidate in esecuzione di precise imposizioni straniere, figuriamoci quelle private
medio-piccole, che pur rappresentavano la vera, oltre che diffusa sul
territorio, essenza dell’imprenditoria e della creatività italiana applicata ai
sistemi produttivi.
Anche se non possono dirsi di certo inattese, le
recenti notizie sulla Mivar mi hanno comunque colpito. Non nego che possa
entrarci qualcosa l’affinità politica con le idee delle quali Vichi non ha mai
fatto mistero, come non hai mai nascosto il suo disprezzo per il sindacalismo
italiano, sottoscrivendo così la lenta condanna della sua impresa che, anche
quando le cose andavano bene, aveva la triplice compatta schierata contro (figuriamoci…
uno che nel suo ufficio tiene i ritratti di Mussolini, anche se ti realizza di
tasca propria uno stabilimento avveniristico che tiene conto delle esigenze
degli operai oltre che di quelle dell’impresa, è un nemico per definizione). Ad
essere sincero, la situazione dell’impresa lombarda mi ha rattristato molto più
dell’ennesima crisi dell’Alitalia, pronta ad ingoiare un’altra valanga di soldi
di provenienza più o meno pubblica pur di proseguire la sua agonia. E’ risaputo a tutti che quella che una
volta era la compagnia di bandiera, è stata un vettore, più che di passeggeri,
di clientele a tutti i livelli. Però va salvata, ad ogni costo, anche a prezzo
di contenziosi con Bruxelles e con le compagnie concorrenti per la questione
degli aiuti di stato, perché, si dice, rappresenta ancora l’Italia nel mondo.
E’ curioso questo nazionalismo di comodo dei nostri
vertici (sarà mica interessato?) che mentre predicano il ritiro del pubblico
dal mercato e permettono che la compagnia telefonica venga fatta oggetto di operazioni
finanziarie della peggior specie (“Vigileremo”, ha detto il Presidente del
consiglio a cose fatte), per l’Alitalia si comportano diversamente inscenando
l’ennesimo salvataggio, a distanza di soli cinque anni da quello precedente. Senza
dimenticare che si tratta di un’Iniziativa ormai priva di senso perché, di
fatto, Alitalia non ha prospettive sulle rotte internazionali mentre su quelle
nazionali, vale a dire su quella Milano-Roma, gli utenti preferiscono Trenitalia,
che è tutto dire. Mi pare, dunque, lecito chiedersi a quale fine immettere
liquidità in una struttura destinata a morire: a quello di cederla domani definitivamente
ad Air France dopo che gli italiani ne avranno pagati i debiti o a quello di
continuare ad occuparne le poltrone? Oppure a tutti e due? Ma, allora, non
sarebbe meglio portare davvero i libri sociali in tribunale e ricominciare da
capo, magari con qualche idea innovativa? E’ fallita pure la Swissair , mica gli
svizzeri ne hanno fatto un dramma!
Vichi, però, ha dichiarato che non si arrende. Nonostante tutto non si
metterà a godere le rendite prodotte dalle sue proprietà e nemmeno comincerà a
scrivere libri da premio Strega per farsi eleggere in parlamento, come un
imprenditore delle mie parti toscane. Continuerà a lavorare e a produrre,
probabilmente tavoli ergonomici per ristoranti e self-service. Ci riserverà di
sicuro qualche sorpresa perché è ancora giovane, ha appena novant’anni.
Enrico Desii
FONTE:http://www.ereticamente.net/2013/10/un-altro-pezzo-di-industria-scompare-si.html#_
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