Chi ha imparato a maneggiare la vera filosofia – quella
dell’essere – sa che si tratta di una ferramenta utilissima per ordinare non solo le alte
sfere della teologia come volevano gli Scolastici, ma tutto il campo dello scibile,
dalle umili viti in un’officina meccanica a questioni di importanza sociale
come l’economia e la politica.
Se è del sapiente ordinare,[1] è dello stolto disordinare, il che può
farsi in tre, e solo tre maniere: confondendo (prendere lucciole per lanterne),
separando (fare i conti senza l’oste), o riducendo (Dio mi guardi da chi studia
un libro solo).
Ebbene l’uomo moderno, chino sotto le batoste sferrate
all’umano pensare dal nominalismo di Ockham in poi, naviga in un vero tsunami
di errori filosofici, a cominciare da sei confusioni rampanti tutt’oggi. Tutte
sono degne di trattazione, ma mi limiterò a quella di più antica data e di
massima importanza: la confusione
tra libertà e indipendenza.
È di moda, dagli ultimi 200 e passa anni, beffarsi del
peccato di origine. Ora codesto dogma (= insegnamento) non è filosoficamente
dimostrabile, ma neanche filosoficamente falsificabile. Chi lo nega non può che
ricorrere alla beffa, allo sdegno, al dileggio, insomma a una gamma di emozioni
che però lasciano la questione intatta, senza dar ragione del disordine
osservabile a tutti i livelli.
Lo stesso avviene a chi nega che l’uomo sia creatura. Deve
rifugiarsi in ragionamenti rocamboleschi, affermazioni dogmatiche la cui
autorità non va al di là della frode scientifica (lampante solo per chi sa di
scienza), et similia.
Cominciamo quindi con l’analisi di cosa voglia dire essere
creatura. L’ingegno umano ne ha prodotto un’infinità, di creature, nel corso
dei secoli, sotto forma di aggeggi più o meno utili. Tutte sono però accomunate
dallo stesso principio: la dipendenza dalle specifiche del costruttore.
Il Museo Smithsonian di Washington D.C. conserva centinaia di marchingegni
costruiti chissà da chi, chissà quando, le cui specifiche sono andate perdute,
e con esse la dipendenza, e con essa la loro utilità.
Consideriamo un locomotore, un mostro che con le sue
migliaia di cavalli di potenza è in grado di trainare molte più migliaia di
tonnellate da A a B. Lo può fare solo umilmente sottoponendosi, lui e il treno,
a un paio di rotaie, di costo infinitamente inferiore, ma senza le quali si
affosserebbe per sempre, incapace di sviluppare una benché esigua potenza.
Una creatura è quindi tanto
più libera di fare quello per
cui è stata progettata, quanto più dipende dalle specifiche del progettista. E se
indipendente, assolutamente inutile.
Ora l’uomo, piaccia o no, è creatura; razionale quanto si
voglia ma creatura; il che vuol dire che il suo marchio di fabbrica è la dipendenza. Sviluppiamone il
concetto.
Le
Rotaie
Chi si muove sulle rotaie della Verità e del Bene è anche
in grado di contemplare il Bello, così viaggiando libero e felice. Chi cerca di
rendersene indipendente non fa che affossarsi in delusioni e subire guai più o
meno cocenti.
Cominciamo dalla caduta originale. Cosa prometteva il
Serpente ai progenitori? Indipendenza, camuffandola naturalmente da libertà.
“Sarete come Dio, conoscitori del Bene e del Male”. Tentatore e tentati
sapevano benissimo cosa volesse dire “conoscitori”. È un termine analogico, che
la povertà del linguaggio applica tanto all’umano quanto al divino. La realtà
dietro al termine, però, è diversa ai due livelli: l’uomo conosce adeguandol’intelletto
alla realtà esteriore; Dio conosce
creando quella stessa realtà.
Per cui i tre intesero che “conoscere come Dio” volesse
dire essere in grado di decidere cosa fosse bene e cosa male. E
mangiarono.
Quella proibizione, si noti, era la sola specifica del Creatore, che serviva
solo a ché le creature ammettessero di essere tali. Avevano tutto l’universo a
disposizione, tranne quell’albero. Non era troppo, ma il
desiderio di indipendenza, o forse di emulazione, li perdette. E conobbero. Ma
cosa? Che erano nudi, e per di più in preda ad un senso di vergogna mai provato
prima.
Il peggio era da venire. Dio li cercava:
- Adamo dove sei?
- Sono qui, dietro a un cespuglio, e
sono nudo.
- E chi ti ha detto di essere nudo? Hai
mangiato del frutto di quell’albero?
Era un’offerta di pentimento, e quindi di salvezza, ma il
già ottenebrato intelletto non gli permise di capire. Avesse risposto: “Sì, e
me ne pento. Perdonami”, le conseguenze sarebbero state diverse, anche se non
siamo in condizioni di dire quali. Ma no: cominciò un inutile esercizio di
scaricabarile: “La donna che Tu mi hai dato…” come se la colpa fosse
del creatore e non sua; eccetera.
Chi vuole un’idea del pesantissimo giogo con il quale il
Principe di questo mondo sottometteva la società pagana storica (non la sua
idea romanticizzata dei neopagani di oggi) legga Erodoto[2] e decida se veramente volesse confarsi
a quello stile di vita. Aristotele avrebbe intravisto la guerra civile che
infuria nell’intimo umano. Agostino, con l’aiuto della rivelazione, la elucidò:
“Un uomo buono, anche se schiavo, è libero; un malvagio, anche se re, è
schiavo. E quel ch’è peggio, non di un solo padrone, ma di tanti quanti
sono i vizi che ha contratto”[3]
Uomo
libero e Uomo indipendente
L’unica scelta creaturale, quindi, è uno di due gioghi. Il secondo è quello
“dolce e leggero” promesso da Gesù (e mantenuto solo per consenso personale).
Che però è del 10.000% più pesante rispetto a quello originale: dieci
comandamenti invece di uno.
La libertà interiore dello schiavo di Agostino si gode accettando legami, cioè
volontariamente rinunciando alla propria indipendenza. E non solo rispetto ai
comandamenti, ma anche a compromessi sociali come promesse mantenute, lealtà
indiscusse, prontezza a rendersi utile, senso del bene comune eccetera. La maturità di una persona è misurabile non dai
risultati di un esame che premia una memorizzazione di nozioni più o meno
inutili, ma dalla capacità – e volontà – di accollarsi doveri: verso Dio, verso il
prossimo e verso sè stessi. Un dovere, personalmente e lietamente assunto, è
sintomo di libertà interiore, non di servilismo. La vera maturitàcomincia in gioventù
per arrivare alla senilità non solo senza soluzione di continuità ma
addirittura in crescendo.
Una tale esperienza è indimostrabile ad altri ma
sperimentabile su di sé. Rimane da dimostrare come l’indipendenza creaturale
sia sempre foriera di conseguenze non volute e invariabilmente sgradevoli, come
la fame di ghiande del figliuol prodigo all’estero.
Ma per lo meno il ragazzo, rientrato in sé, scoprì la
verità ed ebbe il coraggio di prendere le misure adatte. Pochi lo fanno oggi. E
quanto peggio vanno le cose, tanto più si persegue un’indipendenza
irraggiungibile, come la pletora di capricci ribattezzati ‘diritti umani’ senza
doveri corrispondenti e rivendicati ad
infinitum da una marea di
indipendentisti.
La confusione di libertà con indipendenza comincia
normalmente con il rifiuto del Decalogo. Ma qui sopravviene un imprevisto:
l’uomo non può fare a meno di adorare. Perchè? Perchè è creatura, e quindi ha
un bisognoassoluto di sottomettersi a quello che giudica essere il Bene
Supremo.
E se quel Bene Supremo non è chi deve essere, sarà un
altro: un idolo o idoli, come il re multischiavo di Agostino.
Se gli idoli mantenessero le loro promesse, non ci sarebbe
problema. Ma non lo fanno. Non l’hanno mai fatto. Per cui un bel giorno
crollano in una tempesta di cocci sull’illuso che aveva creduto di potervisi
appoggiare. L’esempio seguente è uno su milioni.
Conobbi PJG non più giovane, ma ancora capace di sostenere
viaggi di centinaia di chilometri nel 4 x 4 in cerca di specie botaniche che
poi catalogava e pubblicava in lavori prestigiosi di ricerca scientifica. Non
aveva famiglia.
Ma passavano gli anni, e gli cominciavano a mancare le
forze per sottomettersi alla routine di una professione esigente, anche se con
il servizio di un autista. Arrivò il giorno in cui l’età avanzata ebbe ragione
della ricerca scientifica.
L’idolo non era crollato: si era solo portato fuori tiro.
PJG rientrò in sé, proprio come il figliuol prodigo, ma diversamente dal
ragazzo, non aveva Padre a cui tornare: era ateo.
Con la morte che si avvicinava a grandi passi, e senza
risorse spirituali a cui attingere, la disperazione esplodeva in pianti
sconnessi e improvvisi, mentre i tentativi di amici credenti che cercavano di
portarlo sul piano soprannaturale fallivano uno dopo l’altro. E morì disperato.
Ragione
libera e Ragione indipendente
Passando dal livello personale a quello sociale, la cerca
inutile di indipendenza non è meno innocua. Cominciò con la rivolta contro la
ragione – e pertanto contro la verità delle cose – con un dileggio sistematico
della filosofia scolastica. Il dileggio rimane tale dopo cinque secoli,
ripetuto acriticamente, con variazioni sul tema, da chi non ha mai imparato a
pensare proprio per l’abbandono delle ferramenta della conoscenza: Dialettica,
Grammatica e Retorica, quel Trivio che per mille anni fu la spina dorsale
dell’educazione nella Cristianità.
Entra Descartes (1596-1650) e completa il ribaltamento. Con
lui la ragione non si adegua più all’essere: lo
crea. Si passa dal decidere cosa fosse buono e cosa no, a cosa sia vero e
cosa no. La certezza delle matematiche offre l’illusione di verità, per cui gli
scienziati non sanno che farsene di elucubrazioni filosofiche non più capaci di
rendere ragione del cosmo. E si creano una filosofia tutta loro, chiamandola
‘scienza’, in realtà una trappola di confusione, separazione e riduzione in cui
loro stessi cadono senza neanche rendersene conto.
L’annaspare nell’errore continua, ma il mondo della scienza
ha imparato come nascondersi dietro le penne di pavone della tecnologia, che
continua a basarsi sulla verità delle cose facendo caso omesso di teorie
fallaci e pertanto inutili.
Il ‘Secolo dei Lumi’ segnò l’apogeo della ragione
indipendente, da colà portata a scorrazzare in politica, in economia, nella vita
intellettuale e morale più un lungo eccetera impossibile di esaurire qui.
Andiamo per ordine.
Libertà
e Indipendenza politico-giuridica
C’era una volta… un re!, sì, proprio un re, che governava
come si addiceva ai re. Ciò voleva dire espletare cinque funzioni: a)
amministrare la giustizia, cioè punire i criminali e ricompensare chi faceva il
suo dovere; b) fare rispettare l’ordine sociale per mezzo di leggi giuste; c)
emettere la moneta con la quale permettere di pagare le tasse; c) difendere il
territorio da possibili aggressioni, ed e) proteggere stranieri residenti sul
suolo nazionale a cambio di protezione dei cittadini proprî residenti
all’estero.
C’erano anche funzioni minori, come stimolare l’economia,
costruire infrastrutture, ecc. ma non erano funzioni di governo: erano funzioni
di Stato, che Luigi XIV sbrigava da solo sedendo per 57 lunghi anni al tavolo
di lavoro otto ore al giorno. Ecco perchè diceva “Lo Stato sono io”. Per le
funzioni di governo c’erano le riunioni di gabinetto, dalle quali veniva
rigorosamente escluso chiunque avesse potenziali conflitti di interesse.
Il re aveva ereditato come Superintendente alle Finanze,
dal reggente Mazzarino che se l’era svignata in tempo, il Marchese di Belle Île
e Visconte di Vaux Monsieur Nicolas Fouquet. Sotto Mazzarino costui aveva fatto
una bella ammucchiata di fondi pubblici con i suoi privati, e si era costruito
un imponente chateau ancora oggi esposto all’ammirazione del pubblico.
Forte della sua anzianità (aveva 46 anni contro i 23 del
re) e del sostegno di centinaia di esattori dipendenti dal suo potere, Fouquet
invitò il sovrano alla festa di inaugurazione del rutilante chateau. Il re
venne, vide, mangiò, ringraziò e se ne andò, mentre faceva mentalmente i conti
in tasca al Superintendente.
Il quale credeva di farla franca, ma poco dopo veniva
arrestato (dal capitano D’Artagnan) e processato. Ma non per direttissima: il
processo duròtre lunghi anni, durante i quali vennero a galla le prove
di malversazione aggravata e continuata. Sentenza, la confisca dei beni e
l’ergastolo, che Fouquet scontò a Pinerolo fino alla morte nel 1680.
Così governavano i re. Lo potevano fare perchè le leggi
servivano la virtù della giustizia, definita da Ulpiano come “volontà costante
di dare a ciascuno il suo”. La quale in turno serviva la verità delle cose.
Così non governa lo Stato moderno, semplicemente perchè non può. Avendo
Cartesio mandato la verità a quel paese, è impossibile sapere che tipo di “suo”
sia da dare a chi. Lo Stato moderno non governa: si limita a emettere leggi e
leggine, praticamente nessuna in funzione del bene comune.
Governare, infatti, vuol dire dirimere conflitti, che
esistono perchè l’attaccamento di un gruppo a certi valori cozza con
l’attaccamento di un altro gruppo a valori diversi.
Ma lo Stato moderno, democratico e costituzionale, non
vuole conflitti: vuole consenso,
che secondo Jürgen Habermas (1929- ) ultimo vate della modernità, deve essere
raggiunto deliberativamente per contentare tutti: individui e gruppi che sono
allo stesso tempo legislatori e soggetti alla legislazione.
Si tratta di contraddizioni lampanti, ma solo per chi
ragiona secondo la logica tradizionale. Habermas è hegeliano, per il quale la
contraddizione è solo tesi e antitesi, da sintetizzare svignandosela fra le due
con un artificio linguistico ad
hoc.
E così l’indipendenza filosofica, etica, linguistica,
morale, giuridica e politica predica libertà e razzola schiavitù in crescendo.
Tradizione
e Modernità
Siamo usi a trattare di modernità in termini cronologici:
1450 (Gutenberg) 1453 (i Turchi a Costantinopoli) o 1492 (Colombo in America).
Scavando però in profondità, la sua origine va cercata nella prima delle tre
tappe della Rivoluzione: l’Umanesimo. Dietro alle brillanti produzioni
letterarie degli Umanisti, è nelle loro vite dove invariabilmente appare la
voglia di disfarsi della dipendenza morale dai comandamenti, conseguentemente
dovendo negare il peccato originale.
La cosa non era di ieri: Pelagio lo aveva fatto mille anni
prima, ma era stato condannato come eretico. Gli Umanisti lo negarono in
pratica, vivendo come se si trattasse di una fola senza conseguenze.
Ma qui si imbatterono in un’altro inevitabile aspetto della
natura umana: il libero arbitrio di
una creatura. Si faccia attenzione: ciò che è libero, in una creatura, è il decidere quel che fare o non fare. Le
conseguenze della decisione dipendono dalla natura dell’assunto deciso. Se si
sono scelti la verità e il bene, si continua ad esser liberi; se no, si sarà
alla mercé di un idolo o idoli come visto nell’introduzione.
Ecco perchè le insulsaggini che ebbero a scrivere non
furono che fuochi di paglia, inceneriti dai lanzichenecchi di Carlo V quando
sconvolsero i loro piani nel sacco di Roma (1527). Non molto tempo fa leggevo
di una professoressa di liceo turbata dall’assoluta apatia della scolaresca
verso codesti figuri. E che voleva? Che ammirassero un Petrarca che ci mette 80
pagine a lamentarsi degli amici che lo sparlano? O gli argomenti di un
Pomponazzi che attacca un problema filosofico con il metodo dell’autorità?
Gli Umanisti lasciarono in eredità il rigetto del peccato
originale, rigetto che avrebbe sempre di più dilagato per andare a finire nei
campi culturali suindicati. Nel secolo XVII John Milton (1608-1674),
Protestante, ancora diceva: “Il fine dell’educazione è riparare le rovine dei
progenitori ricuperando la giusta conoscenza di Dio, per poi avendolo
conosciuto amarlo, imitarlo ed essere come Lui.[4]
Furono les
philosophes dell’Illuminismo,
con in testa Rousseau, a dichiarare guerra senza quartiere a quel dogma, e a
ragione: avevano capito benissimo che nell’assenza di un peccato di origine
divengono ridondanti la redenzione, un redentore e una chiesa che ne continui
l’opera. Tre piccioni con una fava insomma.
Non si può negare il loro successo eclatante. Il peccato di
origine è sparito da tutti i campi dello scibile e del fattibile. L’uomo
moderno è indipendente: da Dio, dal prossimo e ora anche da sé stesso.[5] Ma è libero? Ci risponda Pierre Joseph
Proudhon (1809-1865):
Essere
governati vuol dire essere sorvegliati, ispezionati, spiati, diretti,
legislati, regolamentati, recintati, indottrinati, predicati, controllati,
pesati, misurati, censurati, comandati da uomini che mancano tanto del diritto
di farlo quanto di conoscenza e di virtù... Vuol dire, ad ogni operazione, a
ogni transazione, a ogni mossa, essere notati, registrati, elencati,
etichettati, timbrati, scrutati, preventivati, assessorati, patentati,
licenziati, autorizzati, annotati, ammoniti, ostacolati, arrestati. Vuol dire,
sotto pretesto di utilità pubblica, e in nome dell’interesse generale, venir
tassati, addestrati, ricattati, sfruttati, monopolizzati, estorti, schiacciati,
raggirati, derubati; e alla minima resistenza, alla prima lagnanza, repressi,
multati, vilipendiati, infastiditi, braccati, rimproverati, bastonati,
disarmati, strangolati, imprigionati, fucilati, mitragliati, giudicati,
condannati, deportati, sacrificati, venduti, traditi e per colmo burlati,
scherniti, oltraggiati, disonorati. Ecco il governo, la sua giustizia, la sua
moralità![6]
Il testo risale a più di 150 anni fa. Aspetta ancora di far
parte dei ‘programmi ministeriali’.
Silvano Borruso
18 ottobre 2013
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