giovedì 18 settembre 2014

LIBERTÀ VO CERCANDO



Chi ha imparato a maneggiare la vera filosofia – quella dell’essere – sa che si tratta di una ferramenta utilissima per ordinare non solo le alte sfere della teologia come volevano gli Scolastici, ma tutto il campo dello scibile, dalle umili viti in un’officina meccanica a questioni di importanza sociale come l’economia e la politica.
Se è del sapiente ordinare,[1] è dello stolto disordinare, il che può farsi in tre, e solo tre maniere: confondendo (prendere lucciole per lanterne), separando (fare i conti senza l’oste), o riducendo (Dio mi guardi da chi studia un libro solo).
Ebbene l’uomo moderno, chino sotto le batoste sferrate all’umano pensare dal nominalismo di Ockham in poi, naviga in un vero tsunami di errori filosofici, a cominciare da sei confusioni rampanti tutt’oggi. Tutte sono degne di trattazione, ma mi limiterò a quella di più antica data e di massima importanza: la confusione tra libertà e indipendenza.
È di moda, dagli ultimi 200 e passa anni, beffarsi del peccato di origine. Ora codesto dogma (= insegnamento) non è filosoficamente dimostrabile, ma neanche filosoficamente falsificabile. Chi lo nega non può che ricorrere alla beffa, allo sdegno, al dileggio, insomma a una gamma di emozioni che però lasciano la questione intatta, senza dar ragione del disordine osservabile a tutti i livelli.
Lo stesso avviene a chi nega che l’uomo sia creatura. Deve rifugiarsi in ragionamenti rocamboleschi, affermazioni dogmatiche la cui autorità non va al di là della frode scientifica (lampante solo per chi sa di scienza), et similia.
Cominciamo quindi con l’analisi di cosa voglia dire essere creatura. L’ingegno umano ne ha prodotto un’infinità, di creature, nel corso dei secoli, sotto forma di aggeggi più o meno utili. Tutte sono però accomunate dallo stesso principio: la dipendenza dalle specifiche del costruttore. Il Museo Smithsonian di Washington D.C. conserva centinaia di marchingegni costruiti chissà da chi, chissà quando, le cui specifiche sono andate perdute, e con esse la dipendenza, e con essa la loro utilità.
Consideriamo un locomotore, un mostro che con le sue migliaia di cavalli di potenza è in grado di trainare molte più migliaia di tonnellate da A a B. Lo può fare solo umilmente sottoponendosi, lui e il treno, a un paio di rotaie, di costo infinitamente inferiore, ma senza le quali si affosserebbe per sempre, incapace di sviluppare una benché esigua potenza.
Una creatura è quindi tanto più libera di fare quello per cui è stata progettata, quanto più dipende dalle specifiche del progettista. E se indipendente, assolutamente inutile.
Ora l’uomo, piaccia o no, è creatura; razionale quanto si voglia ma creatura; il che vuol dire che il suo marchio di fabbrica è la dipendenza. Sviluppiamone il concetto.

Le Rotaie
Chi si muove sulle rotaie della Verità e del Bene è anche in grado di contemplare il Bello, così viaggiando libero e felice. Chi cerca di rendersene indipendente non fa che affossarsi in delusioni e subire guai più o meno cocenti.
Cominciamo dalla caduta originale. Cosa prometteva il Serpente ai progenitori? Indipendenza, camuffandola naturalmente da libertà. “Sarete come Dio, conoscitori del Bene e del Male”. Tentatore e tentati sapevano benissimo cosa volesse dire “conoscitori”. È un termine analogico, che la povertà del linguaggio applica tanto all’umano quanto al divino. La realtà dietro al termine, però, è diversa ai due livelli: l’uomo conosce adeguandol’intelletto alla realtà esteriore; Dio conosce creando quella stessa realtà.
Per cui i tre intesero che “conoscere come Dio” volesse dire essere in grado di decidere cosa fosse bene e cosa male. E mangiarono.
Quella proibizione, si noti, era la sola specifica del Creatore, che serviva solo a ché le creature ammettessero di essere tali. Avevano tutto l’universo a disposizione, tranne quell’albero. Non era troppo, ma il desiderio di indipendenza, o forse di emulazione, li perdette. E conobbero. Ma cosa? Che erano nudi, e per di più in preda ad un senso di vergogna mai provato prima.
Il peggio era da venire. Dio li cercava:
-          Adamo dove sei?
-          Sono qui, dietro a un cespuglio, e sono nudo.
-          E chi ti ha detto di essere nudo? Hai mangiato del frutto di quell’albero?
Era un’offerta di pentimento, e quindi di salvezza, ma il già ottenebrato intelletto non gli permise di capire. Avesse risposto: “Sì, e me ne pento. Perdonami”, le conseguenze sarebbero state diverse, anche se non siamo in condizioni di dire quali. Ma no: cominciò un inutile esercizio di scaricabarile: “La donna che Tu mi hai dato…” come se la colpa fosse del creatore e non sua; eccetera.
Chi vuole un’idea del pesantissimo giogo con il quale il Principe di questo mondo sottometteva la società pagana storica (non la sua idea romanticizzata dei neopagani di oggi) legga Erodoto[2] e decida se veramente volesse confarsi a quello stile di vita. Aristotele avrebbe intravisto la guerra civile che infuria nell’intimo umano. Agostino, con l’aiuto della rivelazione, la elucidò: “Un uomo buono, anche se schiavo, è libero; un malvagio, anche se re, è schiavo. E quel ch’è peggio, non di un solo padrone,  ma di tanti quanti sono i vizi che ha contratto”[3]

Uomo libero e Uomo indipendente
            L’unica scelta creaturale, quindi, è uno di due gioghi. Il secondo è quello “dolce e leggero” promesso da Gesù (e mantenuto solo per consenso personale). Che però è del 10.000% più pesante rispetto a quello originale: dieci comandamenti invece di uno.
La libertà interiore dello schiavo di Agostino si gode accettando legami, cioè volontariamente rinunciando alla propria indipendenza. E non solo rispetto ai comandamenti, ma anche a compromessi sociali come promesse mantenute, lealtà indiscusse, prontezza a rendersi utile, senso del bene comune eccetera. La maturità di una persona è misurabile non dai risultati di un esame che premia una memorizzazione di nozioni più o meno inutili, ma dalla capacità – e volontà – di accollarsi doveri: verso Dio, verso il prossimo e verso sè stessi. Un dovere, personalmente e lietamente assunto, è sintomo di libertà interiore, non di servilismo. La vera maturitàcomincia in gioventù per arrivare alla senilità non solo senza soluzione di continuità ma addirittura in crescendo.
Una tale esperienza è indimostrabile ad altri ma sperimentabile su di sé. Rimane da dimostrare come l’indipendenza creaturale sia sempre foriera di conseguenze non volute e invariabilmente sgradevoli, come la fame di ghiande del figliuol prodigo all’estero.
Ma per lo meno il ragazzo, rientrato in sé, scoprì la verità ed ebbe il coraggio di prendere le misure adatte. Pochi lo fanno oggi. E quanto peggio vanno le cose, tanto più si persegue un’indipendenza irraggiungibile, come la pletora di capricci ribattezzati ‘diritti umani’ senza doveri corrispondenti e rivendicati ad infinitum da una marea di indipendentisti.
La confusione di libertà con indipendenza comincia normalmente con il rifiuto del Decalogo. Ma qui sopravviene un imprevisto: l’uomo non può fare a meno di adorare. Perchè? Perchè è creatura, e quindi ha un bisognoassoluto di sottomettersi a quello che giudica essere il Bene Supremo.
E se quel Bene Supremo non è chi deve essere, sarà un altro: un idolo o idoli, come il re multischiavo di Agostino.
Se gli idoli mantenessero le loro promesse, non ci sarebbe problema. Ma non lo fanno. Non l’hanno mai fatto. Per cui un bel giorno crollano in una tempesta di cocci sull’illuso che aveva creduto di potervisi appoggiare. L’esempio seguente è uno su milioni.
Conobbi PJG non più giovane, ma ancora capace di sostenere viaggi di centinaia di chilometri nel 4 x 4 in cerca di specie botaniche che poi catalogava e pubblicava in lavori prestigiosi di ricerca scientifica. Non aveva famiglia.
Ma passavano gli anni, e gli cominciavano a mancare le forze per sottomettersi alla routine di una professione esigente, anche se con il servizio di un autista. Arrivò il giorno in cui l’età avanzata ebbe ragione della ricerca scientifica.
L’idolo non era crollato: si era solo portato fuori tiro. PJG rientrò in sé, proprio come il figliuol prodigo, ma diversamente dal ragazzo, non aveva Padre a cui tornare: era ateo.
Con la morte che si avvicinava a grandi passi, e senza risorse spirituali a cui attingere, la disperazione esplodeva in pianti sconnessi e improvvisi, mentre i tentativi di amici credenti che cercavano di portarlo sul piano soprannaturale fallivano uno dopo l’altro. E morì disperato.

Ragione libera e Ragione indipendente
Passando dal livello personale a quello sociale, la cerca inutile di indipendenza non è meno innocua. Cominciò con la rivolta contro la ragione – e pertanto contro la verità delle cose – con un dileggio sistematico della filosofia scolastica. Il dileggio rimane tale dopo cinque secoli, ripetuto acriticamente, con variazioni sul tema, da chi non ha mai imparato a pensare proprio per l’abbandono delle ferramenta della conoscenza: Dialettica, Grammatica e Retorica, quel Trivio che per mille anni fu la spina dorsale dell’educazione nella Cristianità.
Entra Descartes (1596-1650) e completa il ribaltamento. Con lui la ragione non si adegua più all’essere: lo crea. Si passa dal decidere cosa fosse buono e cosa no, a cosa sia vero e cosa no. La certezza delle matematiche offre l’illusione di verità, per cui gli scienziati non sanno che farsene di elucubrazioni filosofiche non più capaci di rendere ragione del cosmo. E si creano una filosofia tutta loro, chiamandola ‘scienza’, in realtà una trappola di confusione, separazione e riduzione in cui loro stessi cadono senza neanche rendersene conto.
L’annaspare nell’errore continua, ma il mondo della scienza ha imparato come nascondersi dietro le penne di pavone della tecnologia, che continua a basarsi sulla verità delle cose facendo caso omesso di teorie fallaci e pertanto inutili.
Il ‘Secolo dei Lumi’ segnò l’apogeo della ragione indipendente, da colà portata a scorrazzare in politica, in economia, nella vita intellettuale e morale più un lungo eccetera impossibile di esaurire qui. Andiamo per ordine.

Libertà e Indipendenza politico-giuridica
C’era una volta… un re!, sì, proprio un re, che governava come si addiceva ai re. Ciò  voleva dire espletare cinque funzioni: a) amministrare la giustizia, cioè punire i criminali e ricompensare chi faceva il suo dovere; b) fare rispettare l’ordine sociale per mezzo di leggi giuste; c) emettere la moneta con la quale permettere di pagare le tasse; c) difendere il territorio da possibili aggressioni, ed e) proteggere stranieri residenti sul suolo nazionale a cambio di protezione dei cittadini proprî residenti all’estero.
C’erano anche funzioni minori, come stimolare l’economia, costruire infrastrutture, ecc. ma non erano funzioni di governo: erano funzioni di Stato, che Luigi XIV sbrigava da solo sedendo per 57 lunghi anni al tavolo di lavoro otto ore al giorno. Ecco perchè diceva “Lo Stato sono io”. Per le funzioni di governo c’erano le riunioni di gabinetto, dalle quali veniva rigorosamente escluso chiunque avesse potenziali conflitti di interesse.
Il re aveva ereditato come Superintendente alle Finanze, dal reggente Mazzarino che se l’era svignata in tempo, il Marchese di Belle Île e Visconte di Vaux Monsieur Nicolas Fouquet. Sotto Mazzarino costui aveva fatto una bella ammucchiata di fondi pubblici con i suoi privati, e si era costruito un imponente chateau ancora oggi esposto all’ammirazione del pubblico.
Forte della sua anzianità (aveva 46 anni contro i 23 del re) e del sostegno di centinaia di esattori dipendenti dal suo potere, Fouquet invitò il sovrano alla festa di inaugurazione del rutilante chateau. Il re venne, vide, mangiò, ringraziò e se ne andò, mentre faceva mentalmente i conti in tasca al Superintendente.
Il quale credeva di farla franca, ma poco dopo veniva arrestato (dal capitano D’Artagnan) e processato. Ma non per direttissima: il processo duròtre lunghi anni, durante i quali vennero a galla le prove di malversazione aggravata e continuata. Sentenza, la confisca dei beni e l’ergastolo, che Fouquet scontò a Pinerolo fino alla morte nel 1680.
Così governavano i re. Lo potevano fare perchè le leggi servivano la virtù della giustizia, definita da Ulpiano come “volontà costante di dare a ciascuno il suo”. La quale in turno serviva la verità delle cose. Così non governa lo Stato moderno, semplicemente perchè non può. Avendo Cartesio mandato la verità a quel paese, è impossibile sapere che tipo di “suo” sia da dare a chi. Lo Stato moderno non governa: si limita a emettere leggi e leggine, praticamente nessuna in funzione del bene comune.
Governare, infatti, vuol dire dirimere conflitti, che esistono perchè l’attaccamento di un gruppo a certi valori cozza con l’attaccamento di un altro gruppo a valori diversi.
Ma lo Stato moderno, democratico e costituzionale, non vuole conflitti: vuole consenso, che secondo Jürgen Habermas (1929- ) ultimo vate della modernità, deve essere raggiunto deliberativamente per contentare tutti: individui e gruppi che sono allo stesso tempo legislatori e soggetti alla legislazione.
Si tratta di contraddizioni lampanti, ma solo per chi ragiona secondo la logica tradizionale. Habermas è hegeliano, per il quale la contraddizione è solo tesi e antitesi, da sintetizzare svignandosela fra le due con un artificio linguistico ad hoc.
E così l’indipendenza filosofica, etica, linguistica, morale, giuridica e politica predica libertà e razzola schiavitù in crescendo.

Tradizione e Modernità
Siamo usi a trattare di modernità in termini cronologici: 1450 (Gutenberg) 1453 (i Turchi a Costantinopoli) o 1492 (Colombo in America). Scavando però in profondità, la sua origine va cercata nella prima delle tre tappe della Rivoluzione: l’Umanesimo. Dietro alle brillanti produzioni letterarie degli Umanisti, è nelle loro vite dove invariabilmente appare la voglia di disfarsi della dipendenza morale dai comandamenti, conseguentemente dovendo negare il peccato originale.
La cosa non era di ieri: Pelagio lo aveva fatto mille anni prima, ma era stato condannato come eretico. Gli Umanisti lo negarono in pratica, vivendo come se si trattasse di una fola senza conseguenze.
Ma qui si imbatterono in un’altro inevitabile aspetto della natura umana: il libero arbitrio di una creatura. Si faccia attenzione: ciò che è libero, in una creatura, è il decidere quel che fare o non fare. Le conseguenze della decisione dipendono dalla natura dell’assunto deciso. Se si sono scelti la verità e il bene, si continua ad esser liberi; se no, si sarà alla mercé di un idolo o idoli come visto nell’introduzione.
Ecco perchè le insulsaggini che ebbero a scrivere non furono che fuochi di paglia, inceneriti dai lanzichenecchi di Carlo V quando sconvolsero i loro piani nel sacco di Roma (1527). Non molto tempo fa leggevo di una professoressa di liceo turbata dall’assoluta apatia della scolaresca verso codesti figuri. E che voleva? Che ammirassero un Petrarca che ci mette 80 pagine a lamentarsi degli amici che lo sparlano? O gli argomenti di un Pomponazzi che attacca un problema filosofico con il metodo dell’autorità?
Gli Umanisti lasciarono in eredità il rigetto del peccato originale, rigetto che avrebbe sempre di più dilagato per andare a finire nei campi culturali suindicati. Nel secolo XVII John Milton (1608-1674), Protestante, ancora diceva: “Il fine dell’educazione è riparare le rovine dei progenitori ricuperando la giusta conoscenza di Dio, per poi avendolo conosciuto amarlo, imitarlo ed essere come Lui.[4]
Furono les philosophes dell’Illuminismo, con in testa Rousseau, a dichiarare guerra senza quartiere a quel dogma, e a ragione: avevano capito benissimo che nell’assenza di un peccato di origine divengono ridondanti la redenzione, un redentore e una chiesa che ne continui l’opera. Tre piccioni con una fava insomma.
Non si può negare il loro successo eclatante. Il peccato di origine è sparito da tutti i campi dello scibile e del fattibile. L’uomo moderno è indipendente: da Dio, dal prossimo e ora anche da sé stesso.[5] Ma è libero? Ci risponda Pierre Joseph Proudhon (1809-1865):
Essere governati vuol dire essere sorvegliati, ispezionati, spiati, diretti, legislati, regolamentati, recintati, indottrinati, predicati, controllati, pesati, misurati, censurati, comandati da uomini che mancano tanto del diritto di farlo quanto di conoscenza e di virtù... Vuol dire, ad ogni operazione, a ogni transazione, a ogni mossa, essere notati, registrati, elencati, etichettati, timbrati, scrutati, preventivati, assessorati, patentati, licenziati, autorizzati, annotati, ammoniti, ostacolati, arrestati. Vuol dire, sotto pretesto di utilità pubblica, e in nome dell’interesse generale, venir tassati, addestrati, ricattati, sfruttati, monopolizzati, estorti, schiacciati, raggirati, derubati; e alla minima resistenza, alla prima lagnanza, repressi, multati, vilipendiati, infastiditi, braccati, rimproverati, bastonati, disarmati, strangolati, imprigionati, fucilati, mitragliati, giudicati, condannati, deportati, sacrificati, venduti, traditi e per colmo burlati, scherniti, oltraggiati, disonorati. Ecco il governo, la sua giustizia, la sua moralità![6]
Il testo risale a più di 150 anni fa. Aspetta ancora di far parte dei ‘programmi ministeriali’.

Silvano Borruso

18 ottobre 2013



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