PREMESSA
Il caso
di seguito descritto rappresenta la pressione fiscale complessiva subita da una
piccola società con due soci, che ha realizzato, nell'esercizio 2012, un utile
di appena 32000 euro. Una miseria, insomma. Eppure la pretesa del fisco è tale
da richiedere alla società e ai soci il pagamento di circa 27 mila euro tra
tasse e contributi, ossia quasi l'85% dell'utile realizzato.
In questi giorni, visto l'approssimarsi delle scadenze
fiscali, sono molto impegnato con le dichiarazioni fiscali per il periodo di
imposta 2012. Questo periodo, oltre ad essere sempre intenso di lavoro, ispira
numerose riflessioni e altrettanti spunti sullo stato di
salute delle nostre imprese, sulla pretesa tributaria che patiscono, e sul
futuro che ci attende. In una di queste, sono giunto alla conclusione che, in
Italia, conviene non lavorare, non imprendere. Starsene
beatamente a casa curando i propri interessi, i propri hobby, e magari darsi a
qualche buona lettura, ripagherebbe molto di più che fare impresa. Sarebbe
molto più utile, almeno nello spirito. Perlomeno, fino a quando non accadrà
qualche shock di sistema, tale da riformare strutturalmente i meccanismi
fiscali al limite dell'incredibile, dell'immaginario e della
sopraffazione. Mi riferisco alla sopraffazione che il fisco pratica nei
confronti dei contribuenti e, nel caso specifico, di chi fa impresa.
Qualche giorno fa, mi è
passata di mano una dichiarazione di un piccola società di capitali: una srl,
con due soci che svolgono entrambi la propria opera all'interno della società.
La crisi, chiaramente,
anche in questo caso, non ha risparmiato l'impresa: i ricavi si sono
contratti significativamente, e anche l'utile è stato spinto al ribasso.
Tant'è che il bilancio al 31/12/2012, presenta un utile prima
delle imposte di appena 32000. Una miseria insomma, che non ripaga affatto
il sacrificio sopportato dai due imprenditori, che si dedicano alla loro
attività quasi 12 ore al giorno, immersi con impegno totale e dedizione in
questo lavoro, trascurando i propri interessi, i propri affetti e le proprie
passioni. Una storia di imprenditori onesti e laboriosi. Una storia come
tante altre, in Italia.
In questo caso, nella determinazione delle imposte da pagare a
carico della società in esame,nonostante l'esiguità dell'utile -
certamente non sufficiente a garantire la sussistenza degli imprenditori
e delle rispettive famiglie-, la tassazione pretesa dal fisco in capo alla
società è di oltre 15.000 euro. 15.593 euro, per l'esattezza. Di cui,
12.024 a titolo Ires, e 3569 per Irap. Quindi, la società subisce un carico
tributario di oltre il 48%.
Vi chiederete come sia possibile, immagino. E' possibile perché
il legislatore fiscale, sempre in cerca di nuova materia imponibile da
colpire, e quindi di nuovo gettito tributario, nel corso degli anni, ha
reso indeducibili una serie di costi, sia ai fini Ires che Irap. Solo per
enunciarvi qualche esempio, le società, ai fini Ires, nonostante abbiano
patito un incremento dei costi finanziari per via dell'inasprimento
delle condizioni bancarie, nella determinazione del reddito, non
possono portare in deduzione tutti gli interessi passivi che pagano, ma possono
farlo solo nei limiti del 30% del ROL (Reddito Operativo Lordo). Essendo
il ROL una variabile che dipende, tra l'altro, dai ricavi conseguiti,
diminuendo questi ultimi, ne deriva che si contrae anche il ROL, divenendo meno
capiente ai fini della deduzione degli interessi passivi, che comunque
aumentano. Invece, ai fini Irap, gli interessi passivi sono, in buona sostanza,
indeducibili nella sua interezza. Quindi, aumentano gli interessi (costi),
diminuiscono i ricavi, il reddito, ma si pagano più imposte.
Altro esempio emblematico riguarda le autovetture. Si pensi ai costi di
acquisto, gestione e manutenzione del parco autovetture. Questi, possono
essere dedotti solo per il 40% (deduzione ridotta al 20% dal primo gennaio 2013).
Oppure, ancora, all'indeducibilità dei costi del personale ai fini Irap,
per i quali, il legislatore riconosce comunque alcune deduzioni. Per queste
componenti di costo, enunciate solo a titolo esemplificativo, il
legislatore ha previsto l'indeducibilità ai fini della determinazione del
reddito tassabile, ancorché siano costi sostenuti nell'ambito del normale
svolgimento dell'attività di impresa, pertinenti e indispensabili al
conseguimento del fine imprenditoriale.
Per via della parziale deducibilità o dell'indeducibilità totale di questi
costi, accade che, paradossalmente, l'erario può fondare la pretesa
tributaria su un reddito non prodotto e su un utile realizzato.
Ritornando all'esempio
che ci occupa, la tassazione della società e dei due soci non si esaurisce con
i 15.593 euro di tasse in capo alla società. Ma anche i soci sono colpiti dal
imposizioni tributarie e contributive.
Già, per l'anno 2012, i
due soci hanno corrisposto i contributi Inps sul reddito minimale individuato a
circa 15000 euro. E quindi altri 3200 euro ciascuno di contributi Inps
facendo salire il conto a 21993. Oltre ai contributi pagati sul
reddito minimale, la legge prevede che, ciascun socio che lavora
nell'azienda debba versare anche i contributi Inps a percentuale sulla parte di
reddito eccedente il minimale. In questo caso, essendo il reddito fiscale di
euro 43722 per via della ripresa a tassazione delle componenti di costo pocanzi
enunciate, ne consegue che ciascun socio debba corrispondere all'Inps altri
1482 euro ciascuno, ancorché il reddito prodotto non sia stato prelevato in
forma di utili distribuiti. E l'imposizione fiscale complessiva, con un utile
di appena 32000, è già arrivata a quasi 25000 euro, ossia il 78%
dell'utile prodotto nel 2012.
Ma c'è dell'altro. I due soci, nel corso del 2013, volendo prelevare
l'utile netto realizzato nel 2012 , o meglio quel che rimane
(16.407=32.000-15.939) anche per far fronte alle proprie spese e al pagamento
dei contributi Inps in scadenza nell'anno, saranno sottoposti a un'ulteriore
tassazione. Prima di tutto dovranno registrare la delibera di
distribuzione dell'utile, pagando 168 euro. Poi, nel 2014, nella propria
dichiarazione dei redditi dovranno riportare l'utile imputato a ciascuno di
loro (8.203) che andrà a formare la base imponibile in misura del 49.72%
dell'utile prelevato, in quanto, in parte, già tassato in capo alla società.
Quindi, ipotizzando che lo scaglione di reddito da applicare sia il più basso
(23%), ciascuno di loro, al netto degli oneri deducibili pagati nel corso del
2013, dovrà corrispondere all'erario ulteriori 900 euro tra Irpef e
addizionali varie. Quindi, il conto delle imposte pagate sia
dalla società che dai soci, per un misero utile di 32000 euro, sale fino ad
arrivare a 27000 euro, euro più euro meno. Ossia l'85% dell'utile prodotto
dalla società nel 2012. Oltre alle tasse di cui abbiamo dato nota, c'è da dire
che l'impresa, durante l'esercizio, subisce altre forme di imposizione. Si
pensi, ad esempio, al diritto annuale della camera di commercio, alla tassa
sulla vidimazione dei libri sociali, all'eventuale IMU (indeducibile) e ad
altre contribuzioni obbligatorie per legge, che, tuttavia, sono già considerate
nella determinazione del risultato d'esercizio originario(32.000 euro).
C'è da dire che la pretesa del fisco non si esaurisce con questa
pretesa assurda e distruttiva, che oltrepassa di molto ogni limite di
sostenibilità e ragionevolezza. Invero, per i 5 anni successivi, il fisco potrà
esperire eventuali controlli sulla fedeltà fiscale dell'azienda, e magari
accertare ricavi superiori a quelli dichiarati, determinati in ragione agli
indicatori previsti dagli studi di settori a cui la società è sottoposta.
Se pensate che il caso appena descritto costituisca un caso limite,
vi state sbagliando di grosso. Benché il caso proposto offra dei piccoli
margini di ottimizzazione del livello di pressione fiscale, esistono
casi in cui le aziende, nonostante conseguano delle perdite anche
significative, sono esposte ugualmente al pagamento di un carico fiscale
eccessivo ed insostenibile. Tanto più in momenti di crisi profonda come quello
attuale. Ciò è possibile per effetto della ripresa a tassazione dei costi
che il fisco considera indeducibili, nonostante siano indispensabili e
strumentali al raggiungimento degli scopi imprenditoriali.
Al fine di riepilogare il ragionamento proposto, vi propongo questo schema
riassuntivo.
Paolo Cardenà
DOMANDE SEMPLICI SEMPLICI:
Ma solo Cardenà ha capito? Le altre migliaia e migliaia di commercialisti dormono?
Non capiscono che se continuano a far finta di niente andranno col culo per terra anche loro?
E ci andranno molto prima di quanto immaginano?
E.M.
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