Un popolo di imprenditori, un Paese
disseminato di imprese. Questa era l’Italia. Le imprese ci sono ancora ma la
proprietà è ormai in mani straniere. Un fenomeno che riguarda molti nomi
storici che facevano risaltare il made in Italy. Così, dal 2008 al 2012, sono
stati ben 437 i marchi italiani che sono stati venduti. Dalla Lamborghini
all’Algida, per una spesa di circa 55 miliardi di euro. Marchi d'eccellenza
nati e sviluppati in Italia, il simbolo stesso della nostra migliore produzione
artigianale, che hanno attraversato momenti di successo e di crisi, e che hanno
cambiato proprietà e bandiera. Una deriva che ha investito tutti i comparti
produttivi, come alimentari e bevande, automazione-meccanica,
abbigliamento-moda e arredamento e prodotti per la casa. Il rapporto
dell’Eurispes sottolinea che molte delle nostre migliori realtà imprenditoriali
sono state schiacciate dalla congiuntura economica negativa, da una
iperburocratizzazione della macchina amministrativa, da una tassazione iniqua,
alla mancanza di aiuti e di tutele e dall'impossibilità di accesso al credito
bancario. L'intreccio di tali fattori ha inciso sulla mortalità delle imprese
creando una sorta di mercato malato all'interno del quale la chiusura di realtà
imprenditoriali importanti per tipologia di produzione e per conoscenze
tecnologiche (il know how) si è accompagnata spesso a una svendita (prima o
dopo la chiusura) che si è resa necessaria di fronte all'impossibilità di
proseguire l'attività e per salvare i vecchi proprietari da conseguenze
patrimoniali personali. Per il sindacato, dentro l’attuale sistema finanziario
sempre più immateriale e senza patria, è ancora più arduo ricostruire l'origine
e i percorsi dei capitali impiegati e dei vari interessi che ad essi sono
riconducibili. Una cosa è però sicura: questi interessi, il più delle volte,
non corrispondano a delle vere vocazioni imprenditoriali, ma funzionano secondo
la logica del massimo profitto nel breve termine.
Il tragico è che la svendita del nostro sistema produttivo ci impoverisce sia
dal lato economico, poiché siamo costretti a vendere a un prezzo inferiore a
quello reale. Sia perché perdiamo attività patrimoniali e imprenditoriali
che sono di difficile quantificazione economica. Infatti, con la svendita
a soggetti esteri, vengono meno la tradizione, l'esperienza e la storia
presenti in ciascuna delle aziende svendute. C’è poi il problema occupazionale.
Una volta acquistata un'azienda che prima operava in Italia, diventa spesso
più conveniente delocalizzare la produzione in Paesi con minor costo del
lavoro, con meno burocrazia e con normative più elastiche di quelle italiane in
materia di sicurezza sul lavoro e di tutela della salute dei consumatori.
Si perde così una nutrita schiera di personale specializzato e crolla inevitabilmente
il livello di qualità del prodotto.
Giuliano Augusto
FONTE: http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=22764
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