(…) Negli anni ’80 i grandi
potentati mondiali decisero che era arrivato il momento di mandare in
soffitta la “terza via” italiana.
Lo stato imprenditore doveva essere
bandito dall’economia lasciando ai “privati” la competizione sui mercati. Ho
messo “privati” tra virgolette perché nel prosieguo capiremo meglio di che
privati si tratta.
Per dare forma a questo piano c’era bisogno di
personaggi che si prestassero a quest’opera di demolizione. I primi
personaggi che avvallarono questa “privatizzazione” furono Romano Prodi e
Carlo De Benedetti.
Il primo venne nominato presidente dell’IRI nel
1982, il secondo invece, era (ed è tuttora) il proprietario del
gruppo Repubblica/Espresso. En passant, faccio notare che Prodi era
anche dirigente della società di consulenze Nomisma, alla quale guarda
caso darà incarichi miliardari per portare avanti le privazioni
(sic! privatizzazioni) dell’IRI.
La prima cosa che fece fu vendere
l’Alfa Romeo alla FIAT. Era una cosa logica e tutti si inchinarono compiaciuti: non aveva senso che lo Stato producesse automobili.
Solo
che la vendita avvenne a rate per 1.000 miliardi di lire (là dove Ford
offriva invece il doppio e in contanti!). Nessuno, allora, si chiese come mai
e in base a quale criterio la Nomisma avesse deciso per
Fiat.
Probabilmente ci sarà stata la solita baggianata di lasciare
un marchio prestigioso in mani italiane … un po’ come anni dopo
avverrà per gli aiuti alla compagnia di bandiera Alitalia. Un obbrobrio
che vide solo i radicali battersi contro tali aiuti di stato.
Nel 1985
Bettino Craxi decise che era giunto il momento di privatizzare la SME che era
il comparto agro-alimentare dell’IRI e che presentava da tempo bilanci in
deficit e solo nel 1984 raggiunse un bilancio in attivo. Quindi fu incaricato
per tale operazione il consiglio di amministrazione dell’IRI.
Anche in
questo caso, Prodi si accordò con la Buitoni (presieduta da Carlo De
Benedetti) svendendo quasi due terzi della SME per soli 393 miliardi
nonostante il valore di mercato fosse 8 volte superiore.
Anche in questo caso
si ripeté lo stesso copione: Prodi non prende in considerazione le offerte
maggiori degli altri acquirenti.
Probabilmente Craxi su suggerimento del
ministro delle partecipazioni statali Clelio Darida, fiutò che qualcosa non
andava e non diede l’autorizzazione alla svendita lasciando la SME ancora
nell’ambito pubblico, cosicché la combriccola Prodi-De Benedetti, dovette far
buon viso a cattivo gioco e non se ne fece più nulla, causa a quanto
pare di una offerta anonima superiore del 10% rispetto a quella di
De Benedetti.
De Benedetti si sentì discriminato e volle far valere l’accordo firmato con Prodi come se fosse stato un vero e proprio contratto portando l’IRI in tribunale.
De Benedetti si sentì discriminato e volle far valere l’accordo firmato con Prodi come se fosse stato un vero e proprio contratto portando l’IRI in tribunale.
La sentenza di primo grado,
diede torto alla Buitoni e fece erompere alle cronache il celebre Processo
SME, che vide imputati Silvio Berlusconi e altri per corruzione di
giudici.
Berlusconi fu definitivamente assolto dall’accusa di corruzione
in atti giudiziari per i 434 mila dollari che da un conto
Fininvest finirono al giudice Renato Squillante attraverso Cesare Previti.
Per questo capo d’accusa l’assoluzione per non aver commesso il fatto
era già arrivata in appello, mentre in primo grado era stato
prosciolto per prescrizione grazie alla concessione delle attenuanti
generiche.
La sentenza di primo grado venne poi confermata sia in appello
sia in cassazione. Nel 1988 un nuovo intervento del CIPI
(Comitato interministeriale per la Politica Industriale) tornò invece
a considerare “strategico” il mantenimento del gruppo.
Finalmente la
SME fu poi venduta tra il 1993 e il 1996, in piena stagione di “mani
pulite”.
Rivedendo questo “film” con gli occhi della storia, viene il
sospetto che tutta la stagione di “mani pulite” sia stata organizzata ad
hoc per permettere di spartirsi una torta di 50 miliardi di euro.
Sia
la DC sia il Partito Socialista erano impregnati di statalismo e dunque
inseriti nella concezione delle partecipazioni statali, perciò non avevano
scrupoli ad offrire prebende ed elargizioni di Stato per comprare il consenso
dei cittadini.
Questa mentalità non andava bene al neocapitalismo
emergente ed ecco che puntuale arriva l’evento che fa saltare il banco:
l’arresto di Mario Chiesa il 17 febbraio del 1992.
Questo episodio dà
l’abbrivio alla stagione di mani pulite, da lì a poco crolleranno DC e PSI, e
inizierà la lunga manovra delle privatizzazioni con l’aiuto dei “governi
tecnici” (capitanati da pirati predoni come Ciampi, Dini, Amato, Draghi,
Andreatta …).
Il 2 giugno 1992, a poco più di tre mesi dall’arresto
di Mario Chiesa, sul panfilo “Britannia” della Regina Elisabetta, ci fu un
incontro riservato per discutere delle “privatizzazioni” tra top
manager italiani e britannici. Erano presenti i presidenti di ENI, INA,
AGIP, SNAM, ALENIA e Banco Ambrosiano, l’ex ministro del Tesoro
Beniamino Andreatta e al direttore generale del Tesoro “Mario
Draghi”.
Come abbiamo visto, l’Italia del ’92 non era ancora pronta
a privatizzare alcunché, tanto, che l’allora consigliere di Confindustria
Mario Baldassarri sentenziò: ”Per privatizzare servono 4 condizioni: una
forte volontà politica; un contesto sociale favorevole; un quadro legislativo
chiaro; un ufficio centrale del governo che coordini tutto il processo di
privatizzazioni.
Da noi oggi non se ne verifica nemmeno una”. Tuttavia a
dispetto del pensiero di Baldassarri, molti dei nostri manager pubblici,
incluso Draghi, erano già proiettati verso il nuovo indirizzo economico, e
la loro volontà veniva incontro agli interessi degli “amici”
britannici, che avevano fretta per spartirsi una bella torta dal valore di
circa 100 mila miliardi di lire, cioè 50 miliardi di euro.
Mani
pulite fu dunque la stagione che creò le condizioni per distruggere
l’economia con privatizzazioni insensate e a bassissimo costo e soprattutto
permise in pochissimo tempo di creare quelle 4 condizioni enunciate da
Baldassarri: la volontà politica che a causa Tangentopoli fece arrivare i
tecnocrati Ciampi, Dini & Co.
Il contesto sociale favorevole grazie
all’indignazione contro la classe politica “corrotta”.
Il quadro
legislativo che cominciò ad essere chiaro dal 1993, con l’ accordo
Andreatta/Van Miert (che regolava la ricapitalizzazione del settore
siderurgico a patto che lo si privatizzasse) e con il “decreto Amato” che
trasformarono l’IRI, l’ENI, l’ENEL e l’INA in società per azioni. E infine la
creazione di un ufficio centrale di governo che coordinasse le
privatizzazioni:
fu istituito il “Comitato Permanente di Consulenza
Globale e Garanzia per le Privatizzazioni”, presieduto dal tecnocrate Draghi,
fu l’ufficio che coordinò le privatizzazioni.
Nel 1994 ci furono
le prime elezioni post Tangentopoli, e al governo ci andò il centrodestra
guidato dal Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. In questo governo
c’era Alleanza Nazionale che aveva posizioni fortemente contrarie alle
privatizzazioni. Non c’è da sorprendersi se questo governo durò pochi
mesi.
Bisognava finire il lavoro appena iniziato, perciò ci fu un
nuovo governo dove alla presidenza del consiglio venne messo Dini,
un “tecnico” favorevole allo spezzatino delle nostre industrie.
Dini subito iniziò la prima fase di privatizzazione dell’ENI
dismettendo circa il 15% dell’intero pacchetto azionario.
Nel 1996, a
vincere le elezioni è il centrosinistra guidato da Romano Prodi, che cedette
un altro 16% delle quote ENI ed inoltre privatizzò la Dalmine e la
Italimpianti appartenenti al gruppo IRI.
Nel 1997 Prodi ritorna a
“trattare” col suo vecchio amico l’Ingegner Carlo De Benedetti al quale
cedette in “regalo” Infostrada (la rete telefonica delle Ferrovie dello
Stato) per 750 miliardi di lire da pagare in comode rate. De Benedetti la
vendette subito per 14 mila miliardi di lire ai tedeschi di
Mannesman”.
Sempre quell’anno Prodi mise sul mercato “Telecom”, con le
azioni che furono vendute ad un prezzo ancora di regalo dato che appena un
anno dopo le stesse azioni varranno sul mercato 5 volte di
più.
Dopo la caduta del governo Prodi nell’ottobre 1998, entra in
scena un altro post-comunista convertito alla causa liberista
delle privatizzazioni: Massimo D’Alema.
D’Alema diventa presidente del
consiglio e immediatamente privatizza la BNL, con la consulenza della banca
d’affari americana JP Morgan.
Nel 1999, dopo il “decreto Bersani” che
liberalizzava il settore dell’energia, venne privatizzata l’ENEL e sempre
quell’anno venne ceduta la società Autostrade alla famiglia
Benetton.
Siamo arrivati ormai alle ultime fasi di privatizzazione
riguardante quel poco che era rimasto dell’ENI.(…)
Walter Mendizza
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