Con il successo elettorale di Grillo inizia in Italia una nuova
fase politica. Grillo, infatti, trova il consenso di chi è convinto che i
politici sono tutti dei corrotti che pensano solo a rubacchiare, totalmente
indifferenti ai bisogni drammatici e urgenti della gente, che vengono infatti
sfacciatamente disattesi da decenni. Questo è stato possibile perché nei fatti
è mancata una forza politica che parlasse con convinzione di ridistribuzione
sociale della ricchezza, di abolizione del precariato, di restringimento della
forbice tra le retribuzioni e le pensioni “d’oro” e quelle medio-basse, di
riduzione del tempo effettivo di lavoro, di difesa dei beni pubblici, di difesa
delle imprese e delle maestranze italiane dalle delocalizzazioni contrarie
all’interesse nazionale, dalla concorrenza “sleale” delle importazioni che non
rispettano i minimi standard di tutela dell’uomo e della natura e da quella
esercitata dalla immigrazione selvaggia.
La sinistra “storica” non ha mai portato avanti un simile
programma per dichiarato “senso di responsabilità” verso le compatibilità
imposte dalla concorrenza internazionale. Con ciò ha mostrato sostanzialmente
di credere nella fondatezza “scientifica” del pensiero liberista e, in specie,
di escludere che la distribuzione possa cominciare già nella sfera della
produzione, attendendosi invece che essa possa avvenire solo dopo che venga
prima prodotto con efficienza (in realtà “stracciona” perché conseguita sul
fronte del costo del lavoro anziché quello della qualità del prodotto) ciò che
poi si distribuisce, non cogliendo, dunque, nemmeno parzialmente, le
conseguenze devastanti che le nostre esportazioni hanno per le imprese e le
maestranze dei paesi “fratelli” che non producono più ciò che viene da esse
soppiantato, non facendo nemmeno una piega di fronte al fatto che per
conseguire questo “lodevole” obiettivo si comprimano retribuzioni, welfare e
civiltà del lavoro nella speranza che la compressione di domanda interna che ne
discende venga più che compensata dalle maggiori esportazioni che così si
promuoverebbero.
Nemmeno la sinistra più estrema, del resto, mette in dubbio la
esattezza scientifica delle analisi liberiste, ed è per questo che quando
chiede qualcosa per i lavoratori e per gli utenti dei servizi sociali non si preoccupa
minimamente di giustificarlo sotto il profilo “tecnico”. Così facendo, però,
avvalora la tesi che i liberisti abbiano ragione sotto il profilo
tecnico-scientifico e lascia l’elettorato suo referente diviso tra chi “si fida
dei padroni” nell’immediato sognando un improbabile sol dell’avvenire situato
in un tempo futuro incerto sia nel se che nel quando, e chi si oppone nella
logica del “tanto peggio tanto meglio” pur ritenendo scientificamente fondata
la lettura liberista del funzionamento del capitalismo ma sperando che esso
crolli per effetto di quella caduta tendenziale del saggio di profitto che
queste rivendicazioni provocherebbero.
E’ in questo vuoto concettuale in cui la sudditanza scientifica
verso il liberismo si sposa con l’appiattimento sindacale più imbarazzante e/o
con il ribellismo irresponsabile, che si inseriscono la destra sociale, il
populismo, il peronismo e i fascismi.
Il loro massimo comune denominatore, infatti, è una certa
solidarietà sociale che si mescola ignorantemente alla invidia verso chi si
vorrebbe essere e dal cui novero ci si sente ingiustamente esclusi, un certo
sentire meritocratico e antiplutocratico di estrazione piccolo-borghese, e la
speranza di ricevere in distribuzione come plebe le colature della ricchezza che
i padroni sanno bene come produrre se solo li si lascia fare, se si combattono
giustizialisticamente le corruttele politico-amministrative, le ruberie dei
falsi invalidi e dei fannulloni che “non vogliono lavorare”, e, perfino, se li
si liberano da quei “lacci e lacciuoli” che impediscono loro di licenziare
liberamente chi non merita e assumere chi merita.
Il collante di tutto lo da il giustizialismo familista e
xenofobo che si esprime nell’ostilità preconcetta verso i “diversi”, gli
“stranieri” e … gli “stupidi” e i “cattivi”, salvo, però, che si tratti di
“amici”.
Insistendo la sinistra a dividersi tra moderatismo complice e
ribellismo sfascista, il quadro politico occidentale è rimasto bloccato per
decenni, attraendo la sinistra politico-sindacale nella rete delle clientele
bipartisan e alimentando nei referenti la depressione e il non-voto.
Oggi, però, il M5S, dopo una gestazione giustizialista e
antipolitica durata 3 anni, nel corso della ultima campagna elettorale ha
cominciato a precisare il suo programma in senso molto più “sociale”, perfino
supportandolo assai più “scientificamente”. Rispetto al programma poco definito
che 2 mesi fa aveva inserito nel suo sito, M5S ha cominciato infatti a parlare
esplicitamente di solidarietà sociale non più procrastinabile, restringimento
brutale della forbice retributiva e pensionistica, abolizione del precariato,
riduzione del tempo effettivo di lavoro, difesa dei beni comuni e simili. Ed è
entrata in modo classista e scientifico nel concreto, indicando dove e come
reperire le relative risorse, non parlando genericamente di lotta alla
criminalità organizzata e all’evasione fiscale, ma di storno dei rimborsi
elettorali, taglio degli enti inutili, taglio degli interessi bancari sui btp
(oggi, circa 87 mld) e sui finanziamenti a famiglie e imprese, e, soprattutto,
di distribuzione sociale sostanziosa, a partire dal prelievo forzoso sui 17 mld
oggi distribuiti per le pensioni tra i 10.000 e il 92.000 euro al mese. In
questa ottica, non ha assunto una prospettiva semplicisticamente anti-europea,
dicendo chiaramente che è ormai necessario, per l’Italia come per tutti i PIGS,
ma anche per la Francia e la Germania, rivedere i parametri di Maastricht per
costruire una Europa solidale che esca dal tunnel recessivo abbandonando con
criterio le politiche del rigore miste a sperequazione antisociale.
Questo è un vero colpo di scena perché nasce così senza che
nemmeno ce ne siamo accorti un vero programma riformista e, insieme,
l’involucro ideologico che lo giustifica eticamente e scientificamente.
Nel contempo, si diffonde la convinzione che M5S sia un
movimento ormai inarrestabile, stante il suo nettamente maggiore appeal
sull’area del non-voto e sull’elettorato genericamente progressista, da quello
social-comunista alla destra sociale. E non potrà che essere così in mancanza
di un intelligente riposizionamento del PD e del PdL.
Il PD, infatti, non potrà sperare di vivacchiare come fa da
ormai 20 anni sulle sue clientele e sulla mancanza di convincenti alternative
alla sua sinistra, mentre il berlusconismo dovrà fare i conti con l’ambiguità
con cui tratta il tema del lavoro e della giustizia sociale, non potendo più
“pagare”, ormai, l’idea reazionaria ancora non ripudiata che la ripresa
economica discenda dalla ulteriore precarizzazione del lavoro, dall’aumento
dello sfruttamento marxiano e dalla detassazione delle fasce alte di reddito
conseguito smantellando il welfare, a partire dalla istruzione e dalla
sanità.
SEL deve tendere la mano a M5S offrendo non un “inciucio” ma la
convergenza leale sulla parte sociale di un programma che è “naturalmente”
comune.
Se il PD aderisce, si stacca da esso la sua componente più
reazionaria ed oltre all’entusiasmo popolare si potrà avere l’appoggio esterno
della parte popolare della Lega (la componente più consistente numericamente)
più quello di un numero imprecisato di populisti sparsi nel PdL. I “numeri”,
del resto, ci sono eccome! Il fronte popolare parte infatti da una base di 448
a 169 alla Camera e di 171 a 144 al Senato.
Il prezzo da pagare è certamente la rinuncia
all’internazionalismo ingenuo, sostenendo che comunque la giriamo ogni
lavoratore produce necessariamente molto di più di quanto consuma, laddove la
disoccupazione è la dimostrazione palmare che lo stato può, con la
programmazione economica, avviare in contemporanea una riduzione dell’orario di
lavoro e una sorta di piano Marshall diretto all’ammodernamento della struttura
produttiva, infrastrutturale e della istruzione, nonché attento al risanamento
del degrado idrogeologico, alla conversione verso le energie rinnovabili e al
potenziamento del welfare. In questa ottica gli extracomunitari non sono più
crumiraggio internazionale ma risorse preziose per lo sviluppo economico e
sociale del paese.
Il PdL, nel frattempo, avrà molte più difficoltà di noi. La
carta giustizialista è meno credibile nelle sue mani, così come i suoi
referenti reazionari e quelli appartenenti all’1% più ricco lo abbandoneranno
se “varcherà il Rubicone” e giocherà spregiudicamente la carta nazionalista
dell’antieuropeismo e quella peronista, proponendo, da un lato, la uscita dalla
Europa, e, dall’altro, un salario di cittadinanza di € 1.000 al mese.
Non sarebbe credibile in contrapposizione a un “fronte popolare”
che chiedesse la revisione dei trattati e non la loro cancellazione, e,
comunque, non potrebbe spingersi oltre nel programma riformista.
Parliamone, poiché il tempo oggi lavora per la ingovernabilità,
prima, e per la lotta tra la eversione e la rivoluzione, entrambe
avventuristiche, in prospettiva.
Nando Ioppolo
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