giovedì 7 novembre 2013

LE FERRAMENTA PERDUTE


Lectio Magistralis di Dorothy L. Sayers (1893-1957)
All’Università di Oxford, 1947


Non ritengo di dover chiedere scusa del fatto che io, con una limitatissima esperienza di insegnamento, presuma di discutere di educazione. Oggi presumono tutti. Ci sono vescovi che presumono di discutere di economia; biologi, di metafisica; chimici inorganici, di teologia; in ministeri dove si richiede la più alta competenza tecnica sono in carica mezze cartucce; e poi chi è uso a parlare chiaro e tondo scrive ai giornali dicendo che né Epstein né Picasso sanno disegnare. Fino a un certo punto, e sempre che le critiche vengano espresse con una certa modestia, non c’è niente di male in tutto ciò. Troppa specializzazione non è bene. E c’è un’altra eccellente ragione perchè dei dilettanti si arroghino il diritto di parlare di educazione. Ed è che se è vero che non tutti siamo insegnanti di professione, è altrettanto vero che tutti siamo stati alunni, per un tempo più o meno lungo. Anche se non abbiamo imparato niente – forse proprio perchè non abbiamo imparato niente – il nostro contributo alla discussione può avere un certo valore.

Mi rendo perfettamente conto dell’estrema improbabilità che le riforme qui proposte vengano accettate. Né i genitori, né le scuole magistrali, né le commissioni di esami, né i ministeri della pubblica istruzione vi presterebbero attenzione anche per un minuto. Già, perchè è mia intenzione dire che se proprio vogliamo una società di persone istruite, in grado di preservare la loro libertà intellettuale nel bel mezzo delle complessità e pressioni della società moderna, dobbiamo nientemeno che far marcia indietro di 400-500 anni per riprendere la via dell’educazione dove questa cominciò a perdere la bussola, verso la fine dell’Età Media.

Prima di liquidarmi con l’etichetta di moda – reazionaria, romantica, medievalista, laudatrix temporis acti o il primo luogo comune che vi venga in mente – mi si permetta di farvi considerare delle cosucce che forse ci arrovellano tutti, e che di tanto in tanto fanno capolino ad inquietarci.

Riflettiamo su che età giovanile si andava all’Università ai tempi, diciamo, dei Tudor, e alla quale uno veniva considerato adatto ad assumere responsabilità per la condotta dei proprî affari. Ci sentiamo proprio a nostro agio davanti al prolungamento artificiale dell’infanzia e adolescenza intellettuale odierno? Posporre l’assunzione di responsabilità a una età tarda trascina con sè un certo numero di complicazioni psicologiche, che per quanto interessanti per lo psichiatra, non sono di vantaggio alcuno né per l’individuo né per la società. Il solito argomento a favore di prolungare l’età scolare e l’educazione in generale è che la quantità di materiale da imparare è così più tanto rispetto a quello dell’Età Media. Il che è parzialmente, ma non totalmente, vero. Agli scolari di oggi vengono impartite molte più materie. Ma ciò ne aumenta le conoscenze?

Non vi sembra strano, o deplorevole, che proprio oggi che il tasso di alfabetizzazione in Europa è alto come non mai, la gente sia così suscettibile alla pubblicità e alla propaganda di massa fino a livelli inauditi e non molto fa inimmaginabili? Credete che si tratti di cosa meccanica, conseguente al fatto che la stampa e la radio riescono a fare arrivare la propaganda ad aree sempre più estese? O a volte sorge un sospetto inquietante, cioè che il prodotto dell’educazione moderna sia meno capace di quel che potrebbe essere nel districare fatti da opinioni e quel che è provato da quello che è semplicemente plausibile?

Avete mai provato ad assistere a un dibattito tra persone adulte e presumibilmente responsabili? Vi ha turbato comprovare la straordinaria incapacità dell’interlocutore medio di concentrarsi sull’argomento, o di affrontare e confutare quello dell’opposizione? Avete a volte ponderato l’alta incidenza di materiale del tutto irrilevante che sorge durante discussioni di gruppo, o quanto rare siano le persone veramente capaci di presiedere a tali discussioni? Riflettendo che la maggior parte delle questioni di Stato viene decisa in riunioni e dibattiti di questo tipo, non si prova a volte un certo senso di vuoto allo stomaco?

Avete mai seguito un dibattito, nei giornali o altrove, e notato quante volte chi scrive manca di definire i termini che usa? O quanto spesso, quando uno definisce i termini, l’altro risponde come se il primo li avesse usati esattamente con il significato opposto a quello definito? Avete a volte provato un senso di sconforto davanti a numerosi esempi di sintassi senza capo né coda? E se sì, il turbamento era causato dall’ineleganza o dal pericolo di possibili malintesi?

Avete mai constatato come i giovani, una volta lasciata la scuola, non solo dimenticano la maggior parte di nozioni ivi apprese (ciò è da aspettarsi) ma dimenticano anche, o rivelano, di non aver mai saputo come affrontare una nuova materia di propria iniziativa? Vi ha mai preoccupato imbattervi in adulti, uomini o donne, che sembrano incapaci di distinguere un libro valido, dotto, ben documentato, da uno che un occhio addestrato vede privo delle tre cose? O in persone che non hanno idea di come consultare un catalogo di biblioteca? O che, nel consultare un lavoro di riferenza, mostrano una strana incapacità di estrarne i passaggi rilevanti alla loro ricerca?

Vi siete mai imbattuti in persone per cui una ‘materia’ rimane ‘materia’ per tutta la vita, divisa da altre da compartimenti stagni, così da trovare difficilissimo stabilire una connessione mentale tra, diciamo, l’algebra e una storia poliziesca, lo scarico delle fognature e il prezzo del salmone, o, più generalmente parlando, tra conoscenze come la filosofia e l’economia, o la chimica e l’arte?

Di tanto in tanto non vi sentite a disagio davanti a ciò che uomini e donne adulti scrivono per adulti? Un notissimo biologo scrive in un settimanale: “L’esistenza di un Creatore viene falsificata dal fatto che le variazioni prodotte dalla selezione naturale possono venir prodotte a volontà da un allevatore (forse lo ha detto con più forza, ma ho smarrito la referenza). Ci si sente tentati di affermare che l’argomento favorisce piuttosto l’esistenza di un Creatore. Ma in fatti non dimostra nessuna delle due tesi; tutto quello che dimostra è che delle cause materiali come la ricombinazione di cromosomi dovuta agli incroci ecc. è sufficiente per spiegare tutte le variazioni osservabili, proprio come le diverse combinazioni della stessa dozzina di note sono materialmente sufficienti per spiegare tanto il Chiaro di Luna di Beethoven quanto il suono che fa un gatto che cammina sui tasti. Ma la performance del gatto né prova l’esistenza di Beethoven, né ne prova la non-esistenza. Tutto quello che l’argomento prova è che il nostro biologo è incapace di distinguere tra una causa materiale e una finale.

Ecco una frase da una fonte accademica prestigiosissima, il Times Literary Supplement: “Il francese Alfred Épinas ha fatto notare che certe specie di formiche e di vespe possono affrontare gli orrori di vita e di morte solo in associazione”. Non so quello che di fatto abbia detto il francese. Quello che dice l’inglese è palesemente senza senso. Non possiamo sapere se la vita offre orrori alla formica, o in che senso la vespa solitaria che uccidete schiacciandola contro il vetro della finestra è in grado di “affrontare” o di non “affrontare” gli orrori della morte. L’articolo tratta del comportamento umano di massa, e motivi umani sono stati travasati di straforo dalla proposizione principale alla sua prova. Così il ragionamento, in effetti, prende per scontato quello che era suo dovere di provare. La cosa diverrebbe trasparente se la si stendesse sotto forma di sillogismo. Questo esempio è uno, scelto a casaccio, dei tanti di un vizio che pervade libri interi, libri scritti da uomini di scienza che invadono il campo della metafisica.

Un’altra citazione presa dallo stesso numero del TLS viene a pennello per completare la collezione di pensieri inquietanti, questa volta presa da una recensione di Some Tasks for Education di Sir Richard Livingstone: “Diverse volte il lettore vierne avvertito circa il valore di studiare una materia a fondo, così da imparare cosa vuol dire conoscere, e che la precisione e la perseveranza sono necessarie per arrivare alla conoscenza. Altrove, però, ci si imbatte nel fatto preoccupante che uno può ben avere completa padronanza di una certa materia, ma senza saperne di più di quello che il vicino ne sa di un’altra; uno ricorda quello che ha imparato, ma dimentica completamente come ha fatto ad arrivarci”.

Mi si permetta di richiamare la vostra attenzione sull’ultima frase, che infatti spiega quello che l’autore con ragione chiama “fatto preoccupante”: le capacità intellettuali trasmesse da una certa materia non sono trasferibili ad un’altra: “ricorda quello che ha imparato, ma dimentica completamente come ha fatto ad arrivarci”.

Qual è il gran difetto dell’educazione moderna rintracciabile in tutti i sintomi elencati in precedenza? Spesso riusciamo a insegnare “materie” ai nostri alunni; ma manchiamo completamente di insegnar loro a pensare. Apprendono tutto, eccetto l’arte di apprendere. È come se insegnassimo a un ragazzino, meccanicamente e ad orecchio, come suonare Fra Martino campanaro al pianoforte, ma senza insegnargli le scale o come leggere musica. E così dopo aver appreso a memoria Fra Martino non ha la più pallida idea di come suonare Il Piccolo Montanaro.  Ma perchè dico: “Come se”? In certe materie artistiche facciamo proprio così: richiediamo all’alunno di ‘esprimersi’ dipingendo prima di insegnargli ad usare i colori o il pennello. Esiste una scuola di pensiero che favorisce questa procedura. Ma osservate: questa non è la maniera in cui un artista sperimentato impara un nuovo mezzo espressivo. Sapendo per esperienza come meglio economizzare sul lavoro e cominciare l’intrapresa come si deve, comincerà con degli scarabocchi su un pezzo di materiale di scarto, così da ‘sentire’ il comportamento delle ferramenta.


L’EDUCAZIONE MEDIEVALE

Diamo un’occhiata adesso allo schema educativo medievale, il programma delle Scuole. Che fosse stato pensato per adulti o per giovanissimi non è importante. Quello che importa è la luce che getta su ciò che i medievali pensavano essere l’oggetto e l’ordine del processo educativo.

Il programma era diviso in due parti: il Trivio e il Quadrivio. La seconda parte, il Quadrivio, era quello delle ‘materie’, che per il momento tralasciamo. Quel che ci interessa è come veniva articolato il Trivio, che precedeva il Quadrivio ed era propedeutico allo stesso. Consisteva di tre parti: la Grammatica, la Logica o Dialettica, e la Retorica, in quell’ordine.

Cominciamo col notare che due di queste ‘materie’ non erano affatto quel che oggi chiamiamo ‘materie’: erano metodi per affrontare materie. La grammatica è senza dubbio una ‘materia’ nel senso che con essa si apprende una lingua – a quei tempi il latino. Ma la lingua come tale è un mezzo per esprimere i propri pensieri. Con il Trivio si insegnava allo studente come usare le ferramenta della conoscenza, prima di applicarle affatto alle ‘materie’. Primo, si apprendeva una lingua. Ma non per ordinare un pasto in un ristorante all’estero; si apprendeva la struttura della lingua, e quindi com’era, di che consisteva e come funzionava. Secondo, si apprendeva come farne uso; come definire i termini e costruire frasi accurate; come metter su una argomentazione e come scovare pecche in un’altra. La dialettica era fatta di Logica e dell’arte di disputare. E terzo, si apprendeva come esprimersi, elegantemente e persuasivamente.

Alla fine di un tale corso di studi, si chiedeva allo studente di preparare una tesi, scelta o dai maestri o da lui stesso, e difenderla dalle critiche della facoltà. A questo punto uno aveva appreso –e guai a lui se non l’avesse fatto – non solo a scrivere un saggio, ma a perorarlo, audibilmente e intelligibilmente, da una piattaforma, controbattendo con arguzia i disturbatori. Poi doveva rispondere a domande, chiare e brucianti, da parte di chi aveva affrontato a suo tempo la difesa di una tesi, e se l’era cavata.

È vero che pezzi sfusi della tradizione medievale si trovino ancora, sparpagliati qua e la, nei programmi scolastici odierni. Bisogna saper qualcosa di grammatica per imparare una lingua straniera – forse dovrei aggiungere “sapere di nuovo”, perchè già ai miei tempi si passava dalla fase dove l’insegnamento delle declinazioni e coniugazioni cominciava a venir giudicato biasimevole, assicurando che era meglio se tali conoscenze venissero raccolte per strada. Vi sono società scolastiche di dibattito; si scrivono saggi; viene sottolineata la necessità di ‘autoespressione’, forse anche troppo. Ma tali attività vengono coltivate più o meno isolatamente, come se appartenessero alle varie materie di insegnamento invece di formare uno schema coerente di addestramento mentale sotto il quale inquadrare tutte codeste ‘materie’. La ‘Grammatica’ appartiene alla ‘materia’ lingue straniere; la Saggistica a quella detta ‘lingua inglese’; mentre la Dialettica è stata eliminata del tutto dal programma, e si practica, quando lo si fa, senza sistema e fuori dell’orario scolastico, come esercizio separato o debolmente connesso con il dovere principale di acquistare conoscenze. In complesso, la grande differenza di enfasi tra le due concezioni è valida: l’educazione moderna si concentra su ‘insegnare materie’, tralasciando i metodi di pensare, dibattere ed esprimere le proprie conclusioni che l’alunno si arrangia a raccogliere come può progredendo. L’educazione medievale si concentrava prima sul forgiare le ferramenta della conoscenza e nell’addestrarsi in esse, facendo uso di qualsivoglia materia come canovaccio per allenarsi nel loro uso. E ciò fino a quando il loro uso diveniva istintivo.

È evidente che ‘materie’ debbano esservi. Non si può apprendere teoria grammaticale senza apprendere la lingua corrispondente, o apprendere a dibattere e parlare in pubblico senza dire qualcosa in particolare. Il materiale da dibattere, nel Medioeveo, proveniva per lo più dalla teologia, dall’etica o dalla storia antica. È vero che spesso i dibattiti divennero stereotipati, specialmente verso la fine del periodo. Certe assurdità stirate e inverosimili di dibattiti scolastici facevano perdere la pazienza a Milton, e producono materiale divertente ancora oggi. Ma non vorrei pronunziarmi su se codesti argomenti fossero stati più o meno triti o ritriti di certi saggi odierni: un tema come “un giorno nelle mie vacanze” può destare una certa noia. Ma l’ilarità con cui si trattano queste cose è malriposta, dato che lo scopo e i contenuti di quello che era un dibattito si sono perduti.

Un disinvolto oratore del Trust dei Cervelli una volta intratteneva il pubblico asserendo che nel Medioevo era una questione di fede il sapere quanti arcangeli potessero danzare sulla punta di un ago. Spero di non dover affermare che non fosse affatto una questione di fede. Al più si trattava di un dibattito nel quale il materiale su cui esercitarsi era la natura della sostanza angelica: erano materiali gli angeli, e se lo erano, occupavano spazio? La risposta giusta era, penso io, che gli angeli sono intelligenze pure; non materiali, ma limitate, così da poter essere localizzate, ma non estese, nello spazio. La lezione pratica del dibattito era di non far uso di termini come ‘colà’ in maniera non ben definita e non scientifica, senza cioè specificare cosa volesse dire ‘localizzato qui’ o ‘che occupa spazio là’.

La pignoleria medievale la si è ricoperta di scherno a non finire; ma quando osserviamo l’abuso svergognato che si fa, nella stampa e nei comizi, di espressioni controvertite di significato ambiguo o ondeggiante, è possibile che ci sentiamo dentro un certo desiderio che magari a chi scrive o parla fosse stata data quella corazza durante la sua educazione, che gli permettesse di poter gridare: “Distinguo”[1]

Già, perchè noi facciamo sì che i nostri giovani adulti vadano in giro disarmati, proprio quando essere ben armato non è mai stato più urgente. Abbiamo insegnato loro a leggere, lasciandoli però alla mercè della parola stampata. L’invenzione del cinema e della radio ha fatto sì che anche chi non ama leggere venga costantemente bombardato da parole, parole, parole. Non ne conoscono il significato; non sanno come pararne i colpi, smussarne il taglio o rilanciarle al mittente; sono divenuti preda delle parole nelle loro emozioni invece di esserne i padroni nel loro intelletto. Quelli di noi che si scandalizzavano nel 1940 quando i nostri soldati venivano mandati a combattere col fucile contro i carri armati, non ci scandalizziamo affatto quando giovani uomini e donne vengono mandati nel mondo a combattere una propaganda massiccia con una infarinatura di ‘materie’; e quando classi e nazioni intere vengono ipnotizzati dalle arti magiche, abbiamo l’impudenza di stupirci. Appoggiamo a parole – a parole – e con parsimonia, l’importanza dell’educazione; a volte anche con qualche spicciolo; posponiamo la fine dell’età scolare, e progettiamo scuole più grandi e migliori; gli insegnanti sgobbano coscienziosamente durante e fuori orario; eppure, penso io, tutti i loro sforzi sono condannati alla frustrazione. Abbiamo perduto le ferramenta dello scibile, e non possiamo che fare pasticci e cucire rattoppi.


E ORA?

Cosa fare quindi? Non possiamo tornare indietro all’età Media. Siamo abituati a sentire questo lamento. Non possiamo andare indietro – o possiamo? Distinguo. Che mi si definisca ogni termine della proposizione. “Andare indietro”, vuol dire regredire nel tempo, o correggere un errore? Il primo è chiaramente impossibile per se; il secondo è quel che ogni saggio fa giornalmente. “Non possiamo”, vuol dire che la nostra condotta è determinata irreversibilmente, o che una tale azione sarebbe molto difficile a causa dell’opposizione che provocherebbe? È ovvio che il XX secolo non è il XIV, ma se “Medio Evo” non è, in questo contesto, poco più di una frase pittoresca che denota una teoria educativa particolare, non esistono ragioni a priori per “non tornarvi” – con le dovute modifiche – così come siamo tornati, diciamo, con le dovute modifiche, all’idea di rappresentare le opere di Shakespeare così come le scrisse, e non nella versione ‘moderna’ di Cibber e Garrick, che una volta sembrava il non plus ultra del progresso tecnico.

Divertiamoci per un momento immaginando che una tale retrocessione sia possibile. Spazziamo via tutte le autorità scolastiche, e procuriamoci una piacevole, piccola scuola mista con ragazzi e ragazze che vogliamo equipaggiare per affrontare il conflitto intellettuale lungo linee scelte da noi stessi. Daremo loro genitori eccezionalmente docili; forniremo la scuola di personale insegnante perfettamente a conoscenza degli scopi e metodi del Trivio; costruiremo un edificio abbastanza grande con il personale giusto per classi sufficientemente ridotte e maneggevoli; e postuleremo una commissione di esami volenterosa e qualificata per collaudare quel che produrremo. Così preparati, abbozzeremo un programma – un “Trivio moderno con dovute modifiche” e vediamo dove ci condurrà.

Cominciamo considerando l’età degli alunni. Dovendoli educare da zero, sarebbe meglio che non avessero alcunchè da dimenticare; per di più, non è mai troppo presto per cominciare qualcosa di buono, e il Trivio è per natura non un apprendimento, ma una preparazione ad esso. Li prenderemo, quindi, giovanissimi, semplicemente capaci di leggere, scrivere e far di conto.

Sono conscia che le mie vedute di psicologia infantile non sono né ortodosse né illuminate. Guardando indietro verso me stessa (sono la bambina che conosco meglio e la sola dal di dentro) riconosco tre momenti di sviluppo. Grosso modo, li chiamerò l’età Pappagallo, l’età Sfacciata e quella Poetica, quest’ultima coincidente con l’inizio della pubertà. Nell’età Pappagallo apprendere a memoria è facile e generalmente piacevole, mentre ragionare è difficile e generalmente poco apprezzato. A questa età si mandano a memoria le forme e apparenze delle cose; ci si diverte a recitare le targhe delle auto; si gioisce a scandire ad alta voce rime e a rombare e tuonare polisillabi incomprensibili; e si ama far raccolta di qualsiasi cosa. L’età Sfacciata, che segue e si accavalla con la prima, è caratterizzata dall’attitudine del bastian contrario: contraddire, rimbeccare, prendere in fallo (specialmente i grandi), e proporre indovinelli. Ha un altissimo coefficiente di insopportabilità. Normalmente si affaccia verso i 14-16 anni. L’età Poetica la si conosce come ‘età difficile’. È egoista; ci tiene a ‘l’autoespressione’; si specializza nell’essere incompresi; è inquieta e tenta l’indipendenza. Con una dose di buona fortuna e di buona direzione dovrebbe mostrare l’inizio della creatività, del principio di una sintesi del già conosciuto, e una certa impazienza di sapere e fare qualcosa preferita alle altre. È mia impressione che il Trivio si adatti singolarmente a queste tre età: la Grammatica al Pappagallo, la Dialettica alla Sfacciata e la Retorica alla Poetica.


GRAMMATICA

Cominciamo quindi con la Grammatica, che in pratica vuol dire la grammatica di una data lingua. E deve essere la grammatica di una lingua dotata di flessioni, sintetica quindi. La struttura di una grammatica senza flessioni, e pertanto analitica, non può essere affrontata da chi non ha nozioni pratiche di Dialettica. Per di più, la lingua sintetica interpreta quella analitica, mentre quella analitica serve poco o nulla per interpretare la sintetica. Comincio quindi con l’affermare che la lingua latina è la base migliore per l’educazione. E non perchè il latino sia tradizionale e medievale, ma semplicemente perchè una conoscenza anche rudimentaria del latino riduce il tempo necessario per imparare quasi ogni altra materia per lo meno del 50%. Il latino è la chiave di accesso al vocabolario e struttura di tutte le lingue teutoniche, così come anche al vocabolario tecnico di tutte le scienze e della letteratura dell’intera civiltà mediterranea, per non parlare dei suoi documenti.

Coloro che si lasciano persuadere dalla preferenza pedante per le lingue vive a privare i loro alunni di tutti questi vantaggi, possono sostituirvi il russo, con la sua grammatica primitiva. Il russo aiuta, naturalmente, nell’apprendimento delle lingue slave. Ci si potrebbe pronunziare anche a favore del greco classico, ma la mia scelta è il latino. Avendo così accontentato i classicisti presenti fra voi, lasciate che vi sconvolga aggiungendo che non credo né saggio né necessario costringere lo studente medio a sdraiarsi sul letto di Procuste dell’età di Augusto con i suoi versi elaborati ed artificiali e le sue forme oratorie. Il latino post-classico e medievale fu un latino vivo fino alla fine del Rinascimento. È facile, e in varie guise più vivace; il suo studio aiuta a dissipare la nozione secondo la quale la lingua e la letteratura si fermarono di colpo alla nascita di Cristo e si risvegliarono all’espropriazione dei monasteri.[2]

Il latino va cominciato quanto prima, quando una lingua ricca di flessioni non sbalordisce più di qualunque altro fenomeno in un mondo già di per se sbalorditivo; e quando lo scandire ad alta voce “amo, amas, amat” è un rito, né più né meno che “se l’arcivescovo di Costantinopoli...”

A questa età, naturalmente, bisogna esercitare la mente con qualcosa di più della grammatica latina. L’osservazione e la memoria sono le due facoltà più vivaci in quel periodo, e se bisogna apprendere una lingua straniera moderna facciamolo ora, prima che i muscoli facciali e mentali si ribellino a intonazioni strane. Il francese o il tedesco parlati possono benissimo venir praticati insieme alla disciplina grammaticale del latino.

In inglese, nel frattempo, poesia e prosa possono venire apprese a memoria, un magazzino da riempire con storie di ogni tipo: mitologia classica, leggende europee, eccetera. Non sono dell’opinione che le storie classiche e i capolavori della letteratura antica debbano essere utilizzati a mo’ di corpus vile su cui praticare le tecniche grammaticali. L’educazione medievale commetteva questo errore, ed è meglio non ripeterlo. Le storie sono divertenti e vanno ricordate in inglese, evidenziandone l’origine più tardi. La recita ad alta voce va incoraggiata, individualmente o in coro; non dimentichiamo che stiamo posando le fondamenta del dibattito e della retorica.

La grammatica della storia dovrebbe consistere, penso io, di date, eventi, aneddoti e personalità. Un insieme di date alle quali agganciare più tardi qualsiasi conoscenza di tipo storico aiuta enormemente nel fissarne la prospettiva. Non importa quali date: quelle dei re d’Inghilterra vanno benissimo, sempre che vengano accompagnate da immagini di costumi, architettura e oggetti di uso comune, cosicchè la menzione di una data richiama tutta una visione del periodo.

La geografia verrà presentata in maniera equivalente, con carte e configurazioni geografiche, più una presentazione grafica di abitudini, costumi, flora, fauna, eccetera. Sono dell’opinione che il recitare a memoria capitali, fiumi, montagne e così via, oggi tanto in disistima, non fa alcun male. Si incoraggino pure le collezioni di francobolli.

Le scienze, durante l’età Pappagallo, si organizzano da sè attorno a collezioni, con le dovute identificazioni, attività che una volta si chiamava ‘filosofia naturale’. Sapere il nome e le proprietà delle cose, a questa età, è una gran soddisfazione in sè e per sè. Riconoscere un calabrone in volo e distinguerlo da un coleottero, allo stesso tempo assicurando i grandi – forse ignoranti – che il primo ha il pungiglione e il secondo no; riconoscere Cassiopeia e le Pleiadi, e forse anche sapere chi erano costoro; sapere che la balena non è un pesce, e il pipistrello non è un uccello; tutte queste cose danno una sensazione piacevole di superiorità, mentre il saper distinguiere una biscia da una vipera o un fungo mangereccio da uno velenoso sono conoscenze di utilità indubbia.

La grammatica delle matematiche comincia, naturalmente, con la tavola pitagorica, che se non si impara adesso non si imparerà più con piacere; e con il riconoscere le forme geometriche e i gruppi di numeri. Codesti esercizi conducono in maniera naturale verso l’eseguire semplici addizioni in aritmetica. Esercizi più complessi possono essere, anzi vanno, rimandati a più tardi, per ragioni che verranno a galla fra poco.

Fin qui, il nostro programma non differisce molto da quelli correnti, eccetto naturalmente che per il latino. La differenza è spiccata, però, nell’attitudine dei maestri, che devono guardare a tutte codeste attività meno come ‘materie d’insegnamento’ che come una raccolta di materiale da usare nel prossimo Trivio. La natura di codesto materiale non importa; qualsiasi cosa che possa mandarsi a memoria durante questo periodo dovrebbe esserlo, sia che venga capita immediatamente o no. La tendenza moderna è di forzare troppo presto spiegazioni razionali nella mente di un bambino. A una domanda intelligente, posta spontaneamente, si risponda immediatamente e razionalmente; ma è un grave errore supporre che un bambino sia incapace di divertirsi e di ricordare materiale al di sopra della sua capacità di analisi specialmente di cose che fanno appello all’immaginazione, come Kublai Khan, o un motivo musicale per l’apprendimento dei generi latini, o un’abbondanza di polisillabi echeggianti come quelli del Quicumque vult.

Mi viene in mente la grammatica della Teologia. La aggiungo perchè la teologia è la regina di tutte le scienze, senza la quale tutta la struttura educativa non otterrà una sintesi finale. Chi non è d’accordo con questa proposizione si accontenterà con il lasciare l’educazione dei suoi studenti piena di nozioni disgiunte. La cosa non è poi tanto importante, perchè una volta forgiate le ferramenta della conoscenza, lo studente sarà in grado di affrontare la teologia da solo, e probabilmente insisterà nel farlo. Ma è bene avere questo materiale pronto per il suo uso corretto. All’età grammaticale basta un profilo di storia sacra, cioè un volo d’uccello sul Vecchio e Nuovo Testamento nel quadro della Creazione, Ribellione e Redenzione, nonchè il Credo, il Padrenostro, e i dieci Comandamenti.[3] A questa età non importa tanto che queste cose vengano capite. Importa che vengano ritenute a memoria.


DIALETTICA

È difficile stabilire a che età uno debba passare da uno stadio all’altro. Generalmente parlando, l’età giusta è quella in cui si sveglia la sfacciataggine, e con essa il desiderio di fare il bastian contrario. Al primo stadio le facoltà maestre erano l’osservazione e la memoria. Adesso è il discorso ragionato. Nel primo, la grammatica latina faceva da perno su cui rotavano tutte le altre nozioni. Nel secondo, quella funzione la espleterà la Logica Formale. Qui il nostro programma mostra la prima divergenza seria dai programmi moderni. Il discredito in cui è caduta la Logica Formale è completamente ingiustificato; averla trascurata è l’errore alla base di tutti quei sintomi inquietanti notati poco fa nella costituzione intellettuale moderna. La Logica è stata screditata perchè in parte siamo arrivati a supporre che ciò che ci condiziona è l’intuizione e il subconscio. Non c’è tempo per dibattere se ciò sia vero o no; dirò semplicemente che il trascurare l’addestramento della ragione è la maniera migliore di provare la verità di codesta proposizione. Un’altra causa dietro alla disgrazia in cui è caduta la Logica Formale è la credenza che si poggi su basi universali che sono o impossibili da provare o tautologiche. Non è vero. Non tutte le proposizioni universali sono di questo tipo. Ma anche se lo fossero, non farebbe alcuna differenza, perché ogni sillogismo categorico di forma “Tutte le A sono B” lo si può rimaneggiare in forma ipotetica, “Se A, allora B”. Il metodo non viene invalidato dalla natura ipotetica di A. E rimarchiamo che l’utilità pratica della Logica non è tanto stabilire conclusioni positive quanto identificare rapidamente ed esporre come false conclusioni invalide.

Diamo adesso un’occhiata riassuntiva al nostro materiale e vediamo come riferirlo alla Dialettica. Per quello che riguarda la lingua, avremo il vocabolario e la morfologia sulla punta delle dita; potremo quindi concentrarci sulla sintassi e analisi logica, più la storia della lingua (cioè come siamo arrivati a mettere insieme il linguaggio che convoglia i nostri pensieri).

Le letture procederanno dalla narrazione e dalla lirica al saggio, all’argomentazione e alla critica, con le quali lo studente farà tirocinio. Parecchie lezioni, in tutte le materie, prenderanno forma di dibattito. E invece di rappresentazioni individuali o corali vi sarà quella teatrale, prestando speciale attenzione a lavori teatrali che intendono convogliare ragionamenti.

La matematica, algebra, geometria che sia, e l’aritmetica più avanzata faranno parte del programma, prendendovi posto non come ‘materia’ indipendente, ma come una sottosezione della Logica. Si tratta né più né meno che di applicare le regole del sillogismo ai numeri e alla misurazione, e dovrebbe essere insegnata così, non come un cupo mistero per alcuni e una brillante rivelazione per altri, senza che illumini altre conoscenze o venga illuminata da esse.

La storia, con l’aiuto di una semplice etica proveniente dalla grammatica della teologia, offrirà moltissimo materiale di discussione: È giustificata l’azione di quello statista? Che effetto ha avuto la promulgazione di quella legge? Quali sono gli argomenti pro o contro una certa forma di governo? Ecco così un’introduzione alla storia costituzionale, una materia senza significato per un piccoletto, ma appassionante per chi è preparato a discutere e a dibattere. La teologia stessa fornirà materiale per argomenti circa la condotta e la morale; e sarebbe bene che la si espandesse con un po’ di teologia dogmatica, cioè la struttura razionale del pensiero cristiano, mettendo in chiaro le relazioni tra dogma ed etica, e applicandola a esempi particolari in quel che comunemente si conosce come casuistica. Anche la geografia e le scienze possono fornire materiale per la dialettica.
Ma soprattutto non trascuriamo il materiale abbondante offerto dalla vita di tutti i giorni.

Nel libro La Siepe Vivente di Leslie Paul c’è un passaggio gradevolissimo, in cui una banda di ragazzi si mette a discutere circa uno straordinario acquazzone abbattutosi sulla loro cittadina. Era stato così localizzato che metà della strada principale era rimasta umida e l’altra secca. Discutevano se si potesse parlare di pioggia sulla città o solo nella città, o sopra la città. Quante gocce d’acqua costituiscono una pioggia? E così via. Il dibattito poi si spostava su altre direttrici circa la quiete e il movimento, il sonno e la veglia, essere o non essere, e la divisione infinitesimale del tempo. L’intero passaggio è un esempio ammirevole dello sviluppo spontaneo della facoltà raziocinante, e della propensità naturale e sete intellettuale della ragione che si sveglia e della necessità di definire i termini e dell’esattezza delle proposizioni. Eventi di tutti i tipi sono in grado di alimentare un tale appetito intellettuale.

I bambini sono casuisti nati. La decisione di un arbitro; fino a che punto è permesso trasgredire lo spirito di una legge senza venirne intrappolati dalla lettera; su questioni del genere la loro intelligenza va addestrata e portata in relazione intelligibile con gli eventi del mondo reale. I giornali sono pieni di eccellente materiale per esercizi di questo tipo: le sentenze dei tribunali in casi relativamente semplici; i ragionamenti fallaci e le argomentazioni confuse che si trovano a palate nella sezione Lettere all’Editore in molti giornali.

Dovunque si trovi materiale da passare al crivello della dialettica, è ovviamente importante risaltare l’eleganza ed economia di una dimostrazione ben concepita e redatta, così da evitare il cinismo. La critica non deve essere solo negativa; ma tanto gli alunni quanto il maestro devono sentirsi in dovere di schiacciare come altrettanti scarafaggi sofismi, ragionamenti imprecisi, ambiguità, irrilevanze, e ridondanze. Questo è il momento in cui cominciare l’arte di scrivere riassunti e anche saggi, che dopo la stesura possono benissimo venir sfoltiti del 25% o anche 50%.

Qualcuno può ora obiettare che l’incoraggiare ragazzi dell’età Sfacciata ad intimidire, correggere e discutere con gli anziani li renderà del tutto intollerabili. Rispondo che a quell’età i ragazzi sono intollerabili comunque, e che è meglio canalizzare la loro tendenza a discutere verso un fine buono invece di farla disperdere nelle sabbie. Se disciplinata a scuola, quella tendenza può essere meno invadente a casa; e in ogni caso gli anziani che hanno abbandonato il sano principio che i bambini vanno visti ma non sentiti non hanno da biasimare che sè stessi.

Ripeto che il contenuto del programma a questo punto può essere qualsivoglia. Le ‘materie’ forniscono il materiale; tutte fanno brodo per il piatto mentale da cucinare. Gli alunni vanno incoraggiati ad andarsi a cercare le loro informazioni, e fare un uso appropriato di biblioteche e di lavori di riferenza, mostrando loro quali fonti di informazione sono autorevoli e quali no.


RETORICA

Verso la fine della tappa, gli alunni avranno probablimente cominciato a rendersi conto che le conoscenze acquisite e l’esperienza di vita raccolta sono insufficienti, e che la loro intelligenza, addestrata, ha adesso bisogno di molto più materiale da masticare. L’immaginazione, in letargo durante l’età Sfacciata, si risveglia, stimolandoli a sospettare che la logica e il ragionamento hanno i loro limiti. Ciò indica che stanno passando all’età Poetica, e che sono pronti ad intraprendere lo studio della Retorica. Le porte del deposito dello scibile vanno adesso spalancate, perchè i ragazzi diano un’occhiata in giro a volontà. Cose a suo tempo imparate a memoria riappaiono in contesti nuovi; altre, a suo tempo analizzate, tornano a unirsi in nuove sintesi; quà e là appaiono intuizioni nuove, che causano la più eccitante delle scoperte: che i truismi corrispondono a verità.

È difficile preparare accuratamente un programma per lo studio della retorica: c’è bisogno di una certa libertà. In letteratura, la valutazione dovrebbe venir prima della critica negativa; l’autoespressione scritta può progredire, con gli strumenti ora affilati e capaci di far tagli netti e osservare le dovute proporzioni. Chi mostra tendenza a specializzarsi deve essere incoraggiato a farlo, dacchè chi ha padroneggiato l’uso delle ferramenta può ora dirigere l’attenzione dovunque. Penso che ogni studente dovrebbe essere incoraggiato a penetrare in una o due materie veramente a fondo, allo stesso tempo attendendo lezioni in materie minori così da mantenere la mente aperta verso le relazioni di tutto lo scibile. In fatti, a questo punto la difficoltà sarà quella di mantenere le ‘materie’ separate, giacchè la dialettica ha mostrato che vi sono relazioni tra tutti i rami dello scibile. La retorica tenderà a mostrarne l’unità. La teologia, da regina che è, mostra che è proprio così, e perchè. Ma che si studi o no teologia, dovremmo per lo meno insistere che coloro che mostrano tendenza verso le discipline scientifiche dovrebbero essere obbligati ad attendere lezioni in materie umanistiche, e viceversa. A questo punto anche la grammatica latina può venir tralasciata, avendo fatto il suo lavoro, a vantaggio di coloro che vogliono continuare lo studio di lingue moderne. Mentre a coloro che hanno mostrato di non avere grandi attitudini per le matematiche, si può permettere di riposare più o meno sugli allori. Generalmente parlando, tutto ciò che è servito da puro apparato lo si può tralasciare. La mente addestrata ora viene preparata a specializzarsi in quelle ‘materie’ che è perfettamente in grado di affrontare da sè una volta completato il Trivio. Bisognerebbe restaurare la sintesi finale del Trivio, cioè la difesa di una tesi, la quale potrebbe prendere il posto dell’esame di maturità durante l’ultimo trimestre scolastico.[4]

La portata della retorica dipenderà anche da se il giovane intende affrontare il mondo a 16 anni o continuare verso l’università. Dato che la retorica dovrebbe essere studiata a partire dai quattordici anni, la prima categoria di alunni dovrebbe studiare grammatica dai nove agli undici, e dialettica dai dodici ai quattordici anni. La retorica gli servirà nei due anni successivi, diretta verso quelle materie pratiche che gli serviranno per guadagnarsi la vita non appena lasciata la scuola. Quelli della seconda categoria dovrebbero esser pronti a dare una prima occhiata alle ‘materie’ che costituiranno il programma universitario. Questa parte dell’educazione corrisponderebbe a quello che era il Quadrivio nell’Età Media. Ciò equivale a dire che chi lascia la scuola ai sedici anni si ferma al Trivio, mentre chi prosegue fa tanto il Trivio quanto il Quadrivio.


IN DIFESA DEL TRIVIO

Il Trivio è sufficiente come educazione per la vita? Se impartito come dovrebbe, penso proprio di sì. Forse alla fine del corso di dialettica lo studente potrà sembrare indietro rispetto a un coetaneo portato su con la dieta ‘moderna’ di ‘materie’. Di particolari ne saprà meno. Ma dopo i quattordici anni costoro dovrebbero essere in condizioni di sorpassare gli altri rapidamente. Di fatto, non sono affatto sicura che uno studente del tutto competente nel Trivio non dovrebbe potere andare all’Università a sedici anni, come il suo omologo medievale, la cui precocità ci lasciava a bocca aperta al principio di questa discussione. Ciò, naturalmente, manderebbe a gambe all’aria il sistema inglese delle public-schools, e sconcerterebbe per bene le università. La regata Oxford-Cambridge non sarebbe più riconoscibile, per esempio.

Non è mia intenzione, però, frugare nei sentimenti delle istituzioni accademiche: quello che mi interessa è l’addestramento delle menti per prepararle ad affrontare la massa formidabile di problemi mal digeriti che il mondo moderno presenta tutti i giorni. Perchè le ferramenta dello scibile sono le stesse per ogni possibile parte di esso; chi le conosce e sa come usarle, potrà impadronirsi, a qualunque età, di qualsiasi materia che gli venga in mente, in metà del tempo e con un quarto dello sforzo di chi o non le conosce o non sa come usarle. Imparare sei materie senza ricordarsi di come si sono imparate non aiuta affatto ad impararne una settima; imparare e ricordare invece l’arte di apprendere apre le porte di qualsiasi altra materia.

Prima di concludere questa serie di suggerimenti, necessariamente sommari, mi si lasci dire il perchè io pensi che sia tanto necessario, oggi, tornare a discipline abbandonate. La verità è che per 300 anni e rotti abbiamo vissuto di capitale educativo. Il mondo del dopo Rinascimento, sconcertato ed eccitato dalla profusione di nuove ‘materie’ che venivano offerte, si allontanò dalla disciplina di una volta (che, bisogna ammettere, era diventata noiosa e stereotipata nelle sue applicazioni pratiche) e prese ad immaginare che da allora in poi potesse, per così dire, divertirsi con il suo nuovo e più esteso Quadrivio senza passare per il Trivio. Ma la tradizione scolastica, per quanto a pezzi e storpiata, perdurava nelle scuole e nelle università. Milton stesso, che la contestava, ne era stato formato – le tracce delle ferramenta si possono percepire nel suo dibattito degli Angeli Caduti e nel dialogo di Abdiel con Satana, che detto sia per inciso potrebbero fornire materiale eccellente per i nostri studi dialettici –. Fino al XIX secolo i nostri affari pubblici venivano condotti, e i nostri libri e giornali scritti, da gente educata in case, e addestrata in luoghi, dove quella tradizione era ancora viva e per così dire circolante nel sangue. Proprio come molti che si dichiarano atei o agnostici in religione, vengono guidati da un codice di condotta cristiano così radicato che non si danno neanche la briga di mettere in dubbio.

Ma non si può vivere di capitale per sempre. Per quanto ferma e radicata sia una tradizione, se no la si irriga può tardare a morire, ma alla fine muore. E oggi una gran quantità di persone, – la  maggioranza forse – di uomini e donne che maneggiano i nostri affari, che scrivono libri e giornali, che presentano opere teatrali e film, parlano da piattaforme e da pulpiti, per non dire coloro che educano i giovani, non hanno mai, neanche a memoria d’uomo, ricevuto addestramento alcuno nella disciplina delle Scuole. I giovani che lasciano la scuola portano con loro sempre meno di quella tradizione. Abbiamo perduto le ferramenta della conoscenza – l’ascia, il cuneo, il martello e la sega, lo scalpello e la pialla – che erano così adattabili a tutti i compiti. In loro vece, abbiamo solo un insieme di maschere di montaggio, complicate, ognuna delle quali eseguisce non più di un compito, e nel cui uso né la mano né l’occhio ricevono alcun addestramento, cosicchè nessuno vede il lavoro nel suo complesso o anche il suo fine.

A che serve ammucchiare compito su compito e prolungare la durata del lavoro, se alla fine non si raggiunge lo scopo prefisso? La colpa non è dei maestri, che lavorano già duro. La follia di una civiltà che ha dimenticato le sue radici li forza a puntellare il peso traballante di una struttura educativa costruita sulla sabbia. Fanno per i loro alunni quello che gli alunni dovrebbero fare da sè. Perchè il solo fine dell’educazione è questo: insegnare come apprendere da sè; e qualsiasi tipo di istruzione che manchi di farlo è sforzo compiuto in vano.







[1] In latino nel testo.
[2] Per decreto di Enrico VIII, 1541.
[3] Da anglicana, la Sayers non fa menzione dei Sacramenti. È sorprendente perciò che citi il Quicumque vult (salvus esse), il simbolo Atanasiano che oggi puzza di politicamente scorrettissimo.
[4] L’originale dice “leaving examination”.

1 commento:

  1. Toh! Nel "dogmatico" medioevo, l'esame finale era la difesa di una tesi, mentre nella "democratica" modernità l'esame di maturità consiste in esercizi specialistici? Ovvero, dall'educazione del pensatore a quella dello schiavo.
    Che sia per questo che la logica ormai è sparita dai media? Ecco perchè non ti devi sorprendere, Elia, se poi incontri persone che credono ai rettiliani e non capiscono le scie chimiche.

    Mandragola

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