Che Unità?
Anche chi non ha letto la Commedia sa che Dante non ebbe remore nel dare del ‘bordello’ all’Italia
dei tempi suoi. E lo fece da toscano, fior fiore di italiano. L’austriaco
Metternich, invece, 500 anni dopo la chiamava – più educatamente – ‘espressione
geografica’, termine che ritorna alla ribalta in pieno 21° secolo davanti all’ormai
ovvio fallimento del tentativo politico di 150 anni fa.
Non commettiamo il comune errore di equiparare territorio
e nazione. Una unità nazionale va cercata nel popolo, negli Italiani, non sul
territorio. Gli Italiani, sono una nazione? Se sì, cosa li unisce?
Fermandoci alla lingua, possiamo rispondere
affermativamente alla seconda domanda. Esiste una popolazione di italo-parlanti
di circa 80 milioni, la maggioranza residenti nella Penisola, e una forte
diaspora all’estero. Ma la lingua sola non basta a unire una nazione. Esistono
altri parametri?
Quelli etnici fa paura solo elencarli. Siamo
Greco-Latini, Osco-Umbri, Veneti, Liguri, Celti, Etruschi, Bizantini, Arabi,
Berberi, Normanni e chi più ne ha più ne metta. Non sembra la strada giusta.
Quelli culturali? Dall’avvento della scuola d’obbligo
‘gratuita’ a quello della televisione (1956), ad oggi il livello culturale
italiano è sprofondato di un ordine di grandezza rispetto a quello che era ai
primi, diciamo, del 18° secolo. Si pensi che Alfonso de Liguori veniva ammesso
alla facoltà di legge dell’Università di Napoli nel 1708, dodicenne. E non è
che fosse una eccezione: il suo contemporaneo David Hume, scozzese e
protestante, entrava in quella di Edinburgh alla stessa età. Oggi sfoggiamo
laureati che leggono la stampa sportiva, i fumetti ecc. ma hanno paura di
confrontarsi con un libro, non parliamo poi se supera le 100 pagine.
Quello militare? Dai capitani di ventura agli alti
papaveri di Supermarina decorati dal
nemico per aver perso la guerra non
si vede proprio di che unità stiamo parlando.
E veniamo al religioso: l’unità cattolica. C’è mai stata,
anche durante i duemila anni in cui la fede omonima informava la cultura
italiana? Dove cercarla, oggi? La disunione impera, debolmente contrastata da
un numero sconosciuto ma ridotto di fedeli, e fortemente sostenuta da gruppi militanti
di neo pagani, miscredenti, atei, idolatri, fedifraghi, e simili. Il numero più
alto sembra essere quello dei Don Abbondio: praticanti di fine settimana, aderenti
alla trilogia battesimo-matrimonio-funerale, e per cui il Compendio del Catechismo è il non
plus ultra dottrinale. Se sentono dire “pietà” si chiedono, se lo fanno:
“Pietà? Chi è costei?
Le cosiddette “Storie della Chiesa” non possono fare
altro che trattare di apparenze: il papato, il clero, la Cristianità, l’Impero
bizantino, l’università, la lotta per le investiture, le missioni, e un lungo
eccetera di letture più o meno attraenti ma sempre fenomeniche.
Ma se frughiamo in profondità, troviamo ciò che in un
qualche modo unifica non soltanto gli Italiani ma anche l’umanità intera: il dramma
del Calvario. Mi spiego, e mi si contraddica se quel che dico non risponde a
verità.
A duemila anni dall’accaduto ancora campeggia,
nell’intimo di ogni essere umano, la Croce con il suo Crocefisso:
inconfondibile, eretta, ma soprattutto inamovibile.
Lo si constata da come la lingua batte dove il dente duole anche tra chi
inneggia allo sparente (o già sparito) “cristianesimo”, come lo chiamano; non possono
fare a meno di ritornarci su. Se fosse veramente sparito, non varrebbe la pena
parlarne. E “cristianesimo” vuol dire croce.
Ma quella Croce non è sola: è con quella di Dismas, che
con un atto di fede divenne il primo santo canonizzato, e quella di Gestas,
bestemmiante e imprecante fino alla fine.
Poi gli spettatori: Giovanni con le tre Marie: la Vergine
Santissima, la vedova di Cleofa madre di famiglia, e la ex-peccatrice di
Magdala ora penitente. Segue un’accozzaglia eterogenea: Simone di Cirene, i
carnefici professionisti, i militi Romani, i Farisei gongolanti, Nicodemo e
Giuseppe di Arimatea che avrebbero chiesto a Pilato audacter il cadavere di Cristo, curiosi di passaggio, habituées di esecuzioni capitali,
eccetera.
Notiamo ora gli assenti: Giuda di Keriot suicida fresco
di corda, e i dieci apostoli, con Pietro a capo, chissà dove: il ‘Vaticano’ che
prende la sua prima decisione collegiale: “tunc
discipuli omnes, relicto eo, fugerunt”, dice Matteo in
umile atto di autoaccusa.
L’evento in quanto tale è il solo fattore unificante. Ma così non sembra: le parti da recitare
vi sono tutte, ma la libertà umana consente di scegliere quale di esse ognuno
vuol recitare. C’è tutto il tempo per cambiare fin che c’è vita; con quale
permutazione, c’è solo l’imbarazzo della scelta.
Dialogo
Uno scambio di grugniti, insulti, o facezie, non è un dialogo.
Un dialogo è uno scambio di idee
diretto, sarebbe da sperare, verso la ricerca della verità. Ma perchè ciò
avvenga due condizioni sono indispensabili:
·
Che ci sia voglia di dialogare
da entrambe le parti.
·
Che si dialoghi dentro un paradigma con principi e metodo comuni.
Un solo paradigma, in questioni di fede, non c’è. Ce ne
sono due: uno che vede la fede da fuori, e uno da dentro. Come funzionano?
Chi vede la fede da fuori, chiede prove della verità dei suoi misteri.[1]
Chi la vede da dentro sa che prove non ve ne sono, dato che chiedere a Dio di
provare quello che rivela è un insulto a dire il meno. Però sa anche che
accettare la fede porta una ricompensa: quella di capirne i misteri tanto più
quanto uno li medita e studia, ma senza mai
arrivare a comprenderli, cioè
capirli del tutto.
Il fedele sa anche un’altra cosa: è vero che codesti
misteri non sono passibili di prova per natura loro, ma è altrettanto vero che non
lo sono neanche di falsificazione, per natura altrettanto loro. Lo si può
verificare dalle argomentazioni contro la fede, dal Perí Christianon di Celso (c. 175 A.D.) alle disquisizioni in Rete
di neo-pagani contemporanei. Celso, che sapeva di aver a che fare con gente
capace di pensare, usava un linguaggio pacato, filosofico, ragionato; i
neopagani di oggi, che sanno di aver a che fare con gente non più capace di
pensare, usano un linguaggio colorito, aggressivo, disdegnoso, ma sempre
inconcludente, data non la loro incapacità di ragionare, ma l’incapacità insita
a qualunque ragionamento di intaccare benchè minimamente l’edificio della fede.
Questo punto non lo capiscono neanche molti cattolici, i quali si lasciano
invischiare da dialoghi tanto inutili quanto spossanti.
Per cui un dialogo con gente così è impossibile, una vera
perdita di tempo. Non è tempo perduto, però, analizzare il modus operandi di
costoro, perchè c’è molto da imparare. Chi sono? Da sempre, i Pagani e i
Farisei talmudici; dal settimo secolo, gli Islamici; dal sedicesimo, i
Protestanti; e dalla Rivoluzione in poi, i disertori che dal recitare la parte
di Giovanni sotto la Croce, sono passati al nemico rappresentato dalla folla
eterogenea summenzionata, o hanno raggiunto il gruppo apostolico in fuga
collegiale. Vediamoli brevemente.
Paganesimo
Anche
nelle storie più laudatorie dei “trionfi del Cristianesimo”, come amano dire
certi storiografi, saltano fuori, qua e là, sacche di popolo dalla dubbia
conversione alla Fede, conversione indotta da quella più o meno sincera di un
principe. La adottarono come si adotta un cappotto quando arriva l’inverno. Per
secoli fecero il doppio gioco; solo che oggi, ringalluzziti dal collasso
intellettuale e morale oceanico e dirompente di quello che una volta fu la
Cristianità, sono passati all’attacco. Si vantano, costoro, della
“superiorità” intellettuale e morale della
cultura pagana, e rinforzano codeste vanterie con il disprezzo, sempre più
aperto, verso tutti i valori cattolici.
I cattolici, generalmente ignoranti della tradizione
tanto pagana quanto cristiana, o incassano, o rispondono con insulti e
grugniti, o semplicemente si disinteressano, giudicando il menu televisivo e la
stampa calcistica più degni di
attenzione.
I pagani di oggi, però, non si rendono conto che il loro
‘ribellarsi’ alla cultura cattolica è una ribellione dello stesso stampo di
quella dello ‘adolescente ribelle’ che si vanta di fare quello che vuole senza
riflettere che la cosa gli riesce perchè il resto della società, tanto dentro
che fuori famiglia, continua a fare il suo dovere: il campanello suona quando
lo si preme, il pane a colazione è fresco perchè qualcuno lo ha impastato e
infornato nelle prime ore del mattino, eccetera.
Non hanno letto, costoro, o per quello i cattolici,
Erodoto, forse il resoconto più completo del paganesimo storico, spoglio di
elementi aggiuntivi dalla cultura bimillenaria cristiana. Dovessero sparire
codesti elementi, sarebbe un’altra storia, la quale appare in tutta la sua
crudità nei testi di Erodoto. Gli do la parola.
Tra gli
Issedoni, quando muore il padre di qualcuno, i parenti portano pecore a casa
sua per farne un sacrificio; fanno tagli di carne sia delle pecore che del
corpo del defunto, e poi servono i due tipi di carne insieme a un banchetto. La
testa del morto, però, la dorano, dopo averne strappato i capelli e ripulito
l’interno; poi la preservano come specie di immagine sacra, che portano in
processione annualmente e alla quale offrono
sacrifici.[2]
[In
Scizia] i prigionieri di guerra vengono
sacrificati ad Ares […]. Ad un uomo su ogni cento si versa del vino sul capo;
poi lo si sgozza su un catino. Il catino lo si porta in cima alla catasta e il
suo contenuto lo si versa sulla spada. Nel frattempo, alla base della catasta,
le braccia dei prigionieri sacrificati vengono mozzate e gettate in aria, per
lasciarle là dove cadono.[3]
Il padre di
Otanes, Sisamnes, era stato messo a morte da Cambise: era uno dei giudici del
re. Cambise lo aveva fatto spellare vivo per aver accettato una mazzetta e
pervertito la giustizia. La pelle rimossa venne tagliata a strisce, e queste
intrecciate sul seggio giudiziale. Cambise affidò l’ufficio – e il seggio – di
giudice a Otanes, per ricordargli cosa era accaduto a suo padre.[4]
Anche al solo
superstite [della battaglia tra Atene ed Aegina] finì male; quando arrivò ad
Atene con la cattiva notizia, le donne di quelli che erano partiti con lui gli
si buttarono addosso inferocite, trafiggendolo con le spille dei loro fermagli.
Ognuna, nel colpirlo, gli chiedeva dove fosse il suo uomo.[5]
Per evitare il ripetersi dell’incidente, Atene adottò una
legge che regolava la lunghezza degli spilloni dei fermagli muliebri, ma al
guerriero – morto – non giovò. Variazioni sul tema sono abbondantissime nei nove
libri di Erodoto, una miniera di episodi di stile di vita pagano storico. Per chi
oggi si torce le mani per le malefatte dei preti pedofili, c’è l’Anabasi di
Senofonte:
“Subito dopo
colazione la marcia ricominciò. I comandanti si piantarono ai due lati di uno
stretto passaggio, confiscando ogni proprietà superflua. I soldati obbedirono,
eccetto dove qualcuno riuscì a far passare un
giovanetto avvenente… e farla franca.”[6]
Il vizio quindi è di lunga data, e chi si scandalizza per
quello che succede oggi, per lo meno sappia che quel che permette di
scandalizzarsi è il punto di vista cristiano, non quello pagano.
Fariseismo
Talmudico
I capitoli 21 di S.Matteo, 23 di Luca e 8 di Giovanni,
più gli Atti degli Apostoli, dicono tutto quello che c’è da dire sull’ostilità
plurisecolare di questo gruppo, che però sarebbe falso accomunare con altri,
numerosi, gruppi dentro l’ebraismo.
Costoro da sempre rifiutano qualsiasi dialogo, e non si
vede spiraglio alcuno d’intesa. Non dimentichiamo, però, l’obbligo di amare i
nemici. Come farlo?
Sapendo che cosè l’amore. Una educazione difettosa fa confondere
l’amore con il sentimento. La sana filosofia, invece, dice trattarsi di un atto
di volontà, facoltà spirituale. La fede dice che amare vuol dire attivamente desiderare la salvezza eterna della
persona amata, a prescindere da simpatie, antipatie, e sentimenti assortiti.
Questo vale anche per l’amore di sé, da non confondere con l’assecondare le
passioni permanentemente in stato di anarchia dovuta alla colpa d’origine.
Facciamo quindi per il Farisei talmudisti quello che
raccomandava il vescovo di Ippona a Monica quando Agostino si era scostato
dalla retta via: “Non parlare a tuo figlio di Dio. Parla a Dio di tuo figlio”.
Islam
I seguaci di Muhammad dialogano e come, ma a modo loro. La
comprensione del termine ‘dialogo’ dista molto da quella aristotelico-tomista.
Alcuni esempi: “Sono tanti gli italiani convertiti all'Islam che pregano in
moschea, e a volte molti di loro conoscono l'arabo e il Corano meglio degli
arabi stessi.”
Così recita l’articolo sulla moschea più grande d’Europa
in www.romeguide.it. Commissionata da Re Feysal di Arabia Saudita nel 1974, la moschea venne
inaugurata nel 1995. Non riflette l’articolista che gli italiani possono
convertirsi all’Islam perchè sono liberi
di farlo, giacché la libertà è prerogativa cristiana. Nessuno impedisce a
costoro di islamizzare.
Chi vuol sapere l’altra faccia della medaglia, la troverà
ne Il Prezzo da Pagare di Joseph
Fadelle, ex Muhammad al-Fadel al-Moussaoui, classe 1964. Durante il servizio
militare nell’Iraq di Saddam, costui scoprì con orrore che il 44enne compagno
di camerata Massoud era cattolico. Muhammad tentò di convertirlo, ma fu lui a
convertirsi.
E non ad opera di Massoud. Nessun uomo ne converte un
altro. Massoud era solo bravo nel rispondere a questioni dottrinali, finchè fu Muhammad
a cominciare a dubitare dei princìpi islamici.
A convertirlo, in sogno, fu Gesù, che gli si rivolgeva
dalla riva opposta di un fiume: “Se vuoi venire da questo lato, devi nutrirti
del pane della vita.” Massoud gli fece leggere il passaggio rilevante in
S.Giovanni, e quegli chiese il battesimo come Youssef.
Ma in Islam cambiare religione è reato, addirittura capitale
in certi paesi, sebbene non nell’Iraq di Saddam. E non solo per chi si
converte, ma anche per chi viene sospettato di aver causato la conversione.
Youssef dovette aspettare ben tredici
anni prima di trovare un sacerdote cattolico coraggioso disposto a
battezzarlo. La famiglia fece tutto il possibile per fargli fare marcia
indietro. Muhammad tenne sodo. Alle minacce seguirono le vie di fatto, cioè un
anno di prigione con tortura. Poi i parenti lo fecero scarcerare.
Ma non per proteggerlo. Uno zio e quattro fratelli gli si
piantarono di fronte: “La tua malattia è Cristo. Ritorna a Maometto!” Alla
risposta negativa seguì un colpo di arma da fuoco. Youssef venne lasciato per
morto.
Miracolosamente non morì. I cattolici clandestini
riuscirono a contrabbandare la famiglia in Francia, dove Youssef vive tutt’oggi
con la moglie Maria e quattro figli.
Chi mette in un motore di ricerca ‘Leonella Sgorbati’ può
visionare un breve YouTube dove costei, suora missionaria a Mogadiscio dove
stava mettendo su una scuola di infermieristica, espone giudizi politicamente
corretti à la carte: le religioni vere, rivestite di orpelli e aggiunte
innecessarie, favoriscono concordia e tolleranza; il dialogo fa vivere in
armonia, eccetera.
Il 17 settembre 2006 Suor Leonella si trovava
malauguratamente per strada a Mogadiscio, accompagnata da una guardia del corpo
(la congregazione non era tanto sicura del dialogo); contemporaneamente, però,
Papa Benedetto XVI teneva una Lectio
Magistralis a Ratisbona nella quale citava una domanda indiscreta dell’imperatore
bizantino Manuele Paleologo al Sultano che lo aveva fatto prigioniero.
Il ‘dialogo’ raggiunse Suor Leonella sotto forma di
cinque pallottole alla schiena. La
guardia del corpo venne abbattuto anche lui. Lei morì in ospedale perdonando l’uccisore.
Fa impressione ascoltarne il melodioso accento piacentino a sette anni dalla
Messa de corpore insepulto che ebbi
il privilegio di presenziare a suo tempo.
Il 9 luglio 1989 (ignoro se Suor Leonella sapesse, o
ricordasse, l’episodio) un altro guerriero di Allah aveva freddato, con un ben
assestato colpo al cuore, il Vescovo di Mogadiscio Salvatore Colombo. Nel 1991
la cattedrale venne incendiata, e da allora il Vescovo di Somalia vive a
Gibuti, fuori tiro.
Ma Cristo rimane, in una comunità (clandestina) cattolica
forte, si dice, di circa 200 anime, che il prelato va a curare pastoralmente,
in incognito, ad intervalli convenuti.
E viceversa? Chi legge storia (reale, non la raccolta di
pie favole che passa per tale nelle scuole) sa che quando i bizantini misero
fine all’emirato di Creta nel 961, il generale Phocas trasse l’emiro Kouroupâs prigioniero
a Costantinopoli. Dopo la cerimonia di sottomissione, costui rimase a piede libero nella città del Bosforo,
dove erano state costruite perfino due moschee per i prigionieri di guerra VIP.
Un figlio di Kouroupâs si convertì, e cadde alla testa di una divisione
bizantina durante le campagne contro i Rus del nord.
Fratelli
Separati chi più chi meno
Allontanandoci dai nemici della Croce si viene tra
fratelli, ma con diversi gradi di separazione dall’unità. Dagli Ortodossi
orientali ci separa la disciplina, non la dottrina, per cui non ce ne
occuperemo. Non è semplice però determinare cosa ci separa dai Protestanti,
dato che ne esiste tutta una gamma, in quattro secoli aumentata a decine di
migliaia di gruppi. Gli High Anglicans
del Regno Unito sono vicinissimi all’interezza cattolica. All’altro estremo si
trovano Testimoni di Geova, Avventisti
del Settimo Giorno, e simili, che appaiono più come diramazioni del giudaismo
che scismatici del cattolicesimo. Come classificarli?
Con l’eresiometro. Il termine ‘eresia’, oggi
politicamente scorretto, non è che un termine tecnico. Proviene dal greco: hairesis vuol dire ‘scelta’. E’ eretico
chi sceglie a cosa credere invece di
accettare il tutto. Evidentemente le combinazioni e permutazioni sono innumerevoli.
Si deve quindi partire dall’insieme, assegnando ad esso
tasso 36, giacché possiede 36 princìpi: 12 dogmatici, dieci morali, sette
sacramentari e sette ascetici. Vediamoli.
I princìpi dogmatici sono i dodici articoli del Credo:
otto trinitari, due ecclesiali e due escatologici. Per dirsi cattolici bisogna
accettarli tutti e dodici, anche perchè se se ne omette uno, gli altri crollano
come un castello di carte.
Degli otto articoli trinitari, sei riguardano Gesù
Cristo. Cosa affermano?
1.
È vero Dio;
2.
È vero uomo;
3.
Patì, morì e fu sepolto;
4.
Risuscitò dai morti;
5.
Ascese al cielo, dove siede alla destra del Padre;
6.
Verrà una seconda volta a giudicare i vivi e i morti.
I princìpi morali sono i dieci comandamenti del Decalogo:
tre circa il tratto uomo-Dio e sette circa il tratto interumano. Qui sono in
ordine alcune considerazioni.
C’è chi vede i comandamenti come imposizioni esterne che
coartano la libertà. Si rifletta: se sono passati intatti dalla vecchia alla
nuova alleanza, mentre gli altri 613 sono stati accantonati da Cristo, la
ragione deve essere un’altra. Quando si acquista un’auto, sia essa nuova o no,
ci si attende scrupolosamente alle specifiche dettate dal fabbricante. Sarebbe
follia decidere se mettere acqua, olio o benzina a casaccio dovunque si vede
un’apertura, in nome della libertà.
Per cui obbedire i comandamenti è infatti libertà: la
stessa libertà dell’auto che riceve i tre liquidi nelle tre aperture
specificate dal fabbricante.
Una ulteriore considerazione è quella tra una
trasgressione materiale e una formale di un comandamento. Quella formale
comporta piena avvertenza e deliberato consenso. Insieme, si chiamano
‘peccato’. La teologia morale fa un trattamento completo della questione, dalla
quale ci asterremo qui.
Ma attenzione: la trasgressione materiale, cioè senza
avvertenza, o senza consenso, o senza i due, non è innocua, come non è innocuo
per l’auto mettere il liquido sbagliato solo perchè lo si è fatto sbadatamente.
Non si commette peccato, ma la natura umana ne soffre lo stesso, e con
conseguenze tutt’altro che trascurabili.
Mi limito a un esempio: una coppia (sposata
canonicamente, ci mancherebbe) che allegramente pratica la contraccezione solo
perchè “il prete dice che va bene” o similia,
non commette peccato formale, e quindi non ha obbligo di confessare l’atto; ma
a poco a poco l’amore si raffredda, poi scende ad amicizia, poi a sopportazione
vicendevole, e infine (o spesso) si trasforma in odio; e non si capisce perchè.
Il perchè è nella natura delle cose: il dono della
procreazione (non ‘riproduzione’ che è puramente animale) ha una contropartita
nella responsabilità del ricevente
verso il Donante. Quando si disattende quella responsabilità si disprezza il
dono, e con esso il Donante, anche se credendo di prestargli culto altrimenti.
Un ulteriore parametro è quello che volgarmente si chiama
‘vita’ umana. In realtà è solo ‘tempo’, cioè la condizione di creatura fatta di corpo e di spirito
che va dal concepimento alla morte. Codesto tempo lo riceviamo incastrato tra due eternità: la prima, in mente Dei, è il progetto di vita
ideato dal Creatore eternamente; la seconda, post mortem, è il successo – o fallimento – di quel progetto, per la
seconda eternità.
C’è una storia che corrobora l’appena detto. Una donna
confessò a Padre Pio di aver abortito. Padre Pio la rese partecipe di una
visione: un Papa santo, acclamato dalla Cristianità e ben voluto da tutti. Poi
le disse: “Vedi? Ecco cosa aveva preparato Dio per tuo figlio se non lo avessi
ammazzato”. La differenza tra ammazzare un essere già formato e impedire allo
stesso di nascere è materiale, ma c’è. Non sta a me misurarla.
Ma continuiamo con i sette Sacramenti: cinque personali (Battesimo,
Cresima, Eucaristia, Penitenza, Unzione degli Infermi) e due sociali (Ordini
sacri e Matrimonio). Provvedono la grazia necessaria per credere e per
obbedire, niente affatto facile come ognuno sa per esperienza. I due sacramenti
sociali non sono necessari per la salvezza personale; lo sono per provvedere
tanto la Chiesa quanto la società civile di elementi che le perpetuino. Si
tratta, in entrambi i casi, di vocazione,
non di opzione da sottomettere a sentimenti più o meno intensi.
Completano l’elenco i princìpi ascetici: i desideri
elencati nel Padre Nostro e le Beatitudini. L’analisi la può fare chiunque, catechismo
alla mano.
Controllando quanti di codesti princìpi uno accetta senza
remore, può calcolare il suo grado di eresia in 36simi. Se il conto risulta
36/36, si può dire ‘cattolico’.
Anche qui si affaccia il problema della materialità o
formalità dell’eresia, ma lo tralascio per non rendere questo trattamento prolisso.
L’ultimo punto da considerare è la dura esigenza di una
vita cristiana. Se una religione ne valesse un’altra, converrebbe darsi a
Maometto, a Budda, o a Priapo. Ma quell’esigenza dice che solo attraverso la
porta stretta si arriva alla meta. So benissimo che è politicamente
scorrettissimo affermarlo, ma tanto le Scritture quanto la Tradizione sono
unanimi. Faccio fare il cappello ad Agostino:
Fuori dalla
Chiesa cattolica è possibile trovare di tutto tranne che la salvezza. È
possibile trovare onore e i sacramenti. È possibile cantare Alleluia e
rispondere: Amen. Si può avere il Vangelo, avere fede nel Padre, nel Figlio e
nello Spirito Santo. È anche possibile predicare codesta fede; ma da nessuna
parte si può trovare la salvezza eccetto che nella Chiesa cattolica.[7]
Silvano Borruso
13 agosto 2013
[1] Mistero,
nel contesto, è da intendersi non come un romanzo di Agatha Christie, ma come
realtà dove entri una componente spirituale, non necessariamente rivelata: la
conoscenza di sé, per esempio, è un mistero.
[2]
Libro IV, 26
[3]
Ibid. 62.
[4]
Ibid. V, 28.
[5] Ibid.
V,
[6] Anabasi
Libro IV
[7] Sermone
6.
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