Ha veramente senso oggigiorno mandare un figlio a scuola?
È questa la fondamentale
domanda che uno dovrebbe porsi quando per un figlio arriva la fatidica
età dei sei anni. Come A. K. Coomaraswamy, nel saggio L’illusione dell’alfabetismo (in Sapienza Orientale e cultura occidentale,
trad. it. Rusconi, Milano 1977), nel quale il celebre tradizionalista
indiano rifletteva sui reali vantaggi dell’istruzione di massa,
confrontati coi danni che questa ha comportato.
Tutto, a questo mondo, è
ambivalente (o plurivalente), nel senso che non è possibile dare un
giudizio assolutamente positivo o negativo al riguardo di cose,
situazioni, uomini. Perché esso dipende dal punto di vista
dell’osservatore, dalla “posizione” che egli occupa, nel mondo, in quel
determinato momento, e dall’indefinita serie di interrelazioni che lo
legano a tutto il resto. E, sopra tutto, vi è una profonda verità: che
noi possiamo ritenere qualcosa un bene ed invece è un male per noi, e
viceversa, com’è insegnato nel Corano.
Ma diciamo che,
fondamentalmente, il valore positivo o negativo di qualsiasi cosa,
istruzione di massa compresa, o diciamo almeno la sua auspicabilità,
dipende dal tipo umano che si ha in vista e che s’intende “formare”.
Così, se una “istruzione” di
base com’è oggi intesa (leggere, scrivere e far di conto) ha senz’altro
i suoi vantaggi se uno vuol vivere in questa società “moderna”, è
pacifico che essa non serve a nulla a chi ha come riferimento ed ideale
di vita un’organizzazione della comunità come quella dei cosiddetti
“popoli primitivi” (o “premoderni”).
In quei contesti, quello che
conta (o contava) è il saper fare, il padroneggiare alcune basilari
abilità, come quella di procacciarsi il cibo con l’agricoltura, la pesca
e la caccia, farsi i vestiti e fabbricarsi gli utensili, costruirsi una
casa, conoscere se stessi per evitare di ammalarsi eccetera, la regola
aurea dell’uomo tradizionale essendo quella dell’autonomia.
Ma anche senza voler
estremizzare fino a questo punto (intendiamoci, sono tutte abilità,
quelle appena enumerate, che dovrebbero far parte del bagaglio di
conoscenze di ogni vero uomo), il livello infimo al quale è scaduto il
concetto di “istruzione” (e quelli correlati di “educazione” e
“cultura”) non può che destare un sincero allarme in chi ha ancora a
cuore una vita da vivere nella sua pienezza, in cui “il mondo” non
rappresenti altro che una provvidenziale occasione per elevarsi.
Ma non secondo una
concezione morale (che sarebbe ancora qualcosa…), e tantomeno in linea
con la tanto adulata “erudizione”, per non parlare della
“specializzazione”, oggi ricercata in ogni “settore”, ed al cui
confronto il sapere dell’enciclopedista sette-ottocentesco fa ancora un
figurone. Una “specializzazione” indefinita che, in opposizione alla autonomia dell’uomo della tradizione, defrauda quest’ultimo di ogni sovranità
ponendolo alla mercé dell’“esperto”. È così che passo dopo passo,
l’uomo “moderno” non ha più di che mangiare, di che vestirsi, e men che
meno un tetto sulla testa se non si rivolge a chi detiene ancora un
“saper fare”, che nel frattempo è diventato estremamente complesso a
causa di “bisogni” in aumento e grazie ad un apparato “legale” che
convoglia ogni attività verso il passaggio obbligato dell’utilizzo del
denaro, il quale, come si sta palesando sempre più chiaramente, conduce
dritti sparati alla fine di ogni libertà.
Non entriamo poi nel merito
di che cosa significhi “curarsi” una volta che l’uomo non capisce più
nulla di sé e di come funziona il proprio corpo, concepito tutt’al più
come una meravigliosa “macchina” che niente ha a che vedere coi piani
del “mentale” e dello “spirituale”. Si va dal medico sperando che quello
ci tolga le castagne dal fuoco dopo che per una vita ci si è illusi che
l’unica grande legge fosse il “faccio come mi pare”… Così alla mal
parata si va dallo “specialista”, che ovviamente non capirà nulla di noi
(perché non può!) e come ultima spiaggia, per non ammettere la sua
imbarazzante incompetenza, c’indirizzerà alla più vicina ‘rivendita di
pezzi di ricambio’ (la clinica chirurgica).
Quale sia il nesso di quel che comunemente chiamiamo “istruzione” con tutto quanto precede è presto detto.
Da una parte, oggi, abbiamo
un sapere finalizzato esclusivamente a scopi pratici, per forza di cose
mutevole, ridiscutibile e che fa appello esclusivamente alla sfera del
“mentale”, sia che si tratti di materie “scientifiche” o “umanistiche”,
nel quale conoscente e conosciuto restano inevitabilmente separati;
dall’altra un sapere senza tempo, quindi sempre valido, da cui possono
eventualmente derivare applicazioni pratiche ma che non ne costituiscono
la ragion d’essere, e dove si persegue costantemente l’identità tra
conoscente e conosciuto: è il “Conosci te stesso” che anche
l’antica Grecia, tanto osannata quando se ne vuol fare l’antesignana
della “democrazia” e della “scienza moderna”, ha posto come aurea
massima di saggezza.
Fondamentalmente, l’unica
vera “scienza” è quella che proviene da Dio, e che possiamo trovare
dentro di noi attraverso la preghiera e la “meditazione”, ovvero la
riflessione concentrata e guidata sui “nomi”, le qualità divine, che
ciascuno ha il dovere di esperire per “elevarsi” davvero a vero uomo, a
“uomo universale”. Tutto il resto, per quanto riguarda la cosiddetta
“istruzione”, è aria fritta.
Pur mantenendoci nell’ambito
delle abilità “pratiche”, vogliamo fare il confronto tra un uomo che sa
costruirsi una casa e uno che deve penzolare dalla corda del “mutuo”?
Intendiamo seriamente paragonare chi sa procurarsi da mangiare con chi
si riempie compulsivamente il carrello della spesa? Pensiamo seriamente
che esista un qualche termine di raffronto tra un “guerriero” e chi si
diverte ad accoppare vigliaccamente da migliaia di chilometri di
distanza con una “consolle” in mano? Chi è “indietro” tra chi si
preoccupa di mantenersi in salute come forma di “ringraziamento” e chi
si uccide un tanto al giorno seguendo uno stile di vita scellerato?
E, soprattutto, che dire
della paura tremenda che i “moderni” hanno al pensiero di morire e della
penosa impreparazione che dimostrano nel momento in cui avviene il
fatidico trapasso? La cultura tradizionale, invece, ha sempre attribuito
una fondamentale importanza a quel passaggio, istruendo l’uomo ad
interrogarsi sul suo significato ed “armandolo” con strumenti adeguati
per quando sarebbe giunto.
Questo è bene capirlo per
non illudersi sulla portata della cosiddetta “istruzione” (“pubblica” o
“privata”, poco importa) e farne perciò un buon uso entro i limiti cui
essa è destinata, evitando perciò di scambiarla per quel che non è e non
può dare.
Bisogna perciò compatire e
perdonare questi attuali ciechi e folli “governanti” che ad ogni “anno
scolastico” o cambio di “governo” ne inventano sempre una per
sbalordirci e sembrare “originali”. Qualcuno ricorderà le famose “tre I”
di un ministro che tutti hanno già dimenticato, oppure l’epocale
“riforma” di questa o quella caricatura di Gentile, il quale pur
occupandosi di “istruzione” (“Educazione nazionale”, per l’esattezza) in
un regime che comunque scontava, per ovvi motivi, vari difetti
“moderni”, si staglia come un gigante della Conoscenza di fronte a
questi gnomi preoccupati solo di mettersi in mostra e di accontentare
“l’aria che tira”.
Quello almeno era un
filosofo, ed aveva le idee chiare su cosa, in un contesto
“modernizzatore” si dovesse fare in ambito scolastico per ottenere il
non disprezzabile risultato di una nazione di uomini con un “carattere”.
Con la guerra persa, inesorabilmente, anche quel che di buono c’era
nella riforma gentiliana con la centralità di una formazione umanistica è
stato fatto a pezzi, fino all’attuale deserto chiamato “mondo della
scuola”, il quale è come un iceberg alla deriva di cui s’intravede solo la punta di qualche operazione di facciata come quella di cui andiamo a parlare.
Dopo anni di lavaggio del
cervello sugli “sprechi” della “casta” (“la casta” siamo noi che
dobbiamo tirare la cinghia, non l’avete ancora capito?) tira parecchio
il motivo del “risparmio”, del “non ci sono più soldi” ed altre amenità
pseudo-pauperistiche. Così, in un tripudio di inni alla “modernità” e
alla “tecnologia”, assieme ad un’ostentata attenzione alle “esigenze di
cassa” con cui foraggiare il popolo bue felice e contento, viene
annunciato che a partire dal 2014-2015 a scuola si useranno obbligatoriamente i libri digitali (e-book).
“Si risparmierà” su tutto
(che bello!), dalla carta ai costi dei libri, ci assicurano (ma chi
pagherà la corrente elettrica per le ricariche dei “tablet”? e
come smaltiremo tutti quelli che si romperanno?), compreso
quell’insostenibile fardello che, poveretti, i nostri ragazzi sono
costretti a portarsi dietro in cartelle e zaini sempre più pesanti al
punto che sono dotati di rotelle come le valigie da viaggio.
Ma dove stava il problema?
Nel libro cartaceo in sé o nell’esagerata proliferazione di testi
inutili per compiacere vari interessi commerciali? La risposta la
conoscono tutti. E tutti sanno anche che quando le cartelle e gli zaini
non pesavano una tonnellata si usciva dalla terza media con una
“cultura” che mediamente non può dire d’essersi fatto un liceale dei
nostri giorni.
Il problema sta dunque nei
contenuti, dei libri e delle lezioni, e, soprattutto, nel tipo umano
rappresentato dal professore e dall’allievo, che dovrebbero porsi ogni
tanto la domanda sul perché si trovano lì, al di là dello stipendio, del
“punteggio” e dell’“obbligo scolastico”. Invece se ne fa una questione
di “aggiornamento”, di “informatizzazione” e dell’immancabile
“modernizzazione”, allungando il brodo di una minestra sciapa che
fondamentalmente non piace a nessuno ma che si continua a sorbire perché
non s’è mai assaggiato di meglio.
Ma lasciate ogni speranza, o
voi che entrate nel mondo della “democrazia” e della “modernità”.
Specialmente la speranza d’interrogarvi sul senso di un’istituzione e di
un’attività senza che un collega o il genitore di un compagno di scuola
di vostro figlio vi guardi stralunato come se foste un marziano o un
inguaribile “passatista” (perché altro, chi è abituato ad una concezione
lineare del tempo, non riesce a concepire).
I ragazzi vengono
parcheggiati a scuola per la semplice ragione che i genitori sono
aggiogati al lavoro fuori casa tutto il giorno e per non ammettere che
per loro non c’è un lavoro decente. La cosa è particolarmente evidente
nelle superiori ad indirizzo “professionale”, nelle quali la maggioranza
degli allievi sono svogliati ed annoiati. E pure comprensibilmente, se
si pensa che, anche se non lo realizzano, in cuor loro vorrebbero una
“vita eroica” e non quella che, da quando hanno sei anni (o anche prima,
se sono stati messi all’asilo), sono costretti a trascorrere sempre seduti e al chiuso,
nemmeno fossero ai remi di una galera, per star dietro a questioni di
nessun vero interesse, per giunta nient’affatto stimolanti quando
provengono da un “maestro” o un “professore” che non “è” ma al limite (e
se va bene!) “sa”. Un docente perennemente tra l’incudine dei
“clienti”, ehm, degli studenti e il martello del “dirigente scolastico”,
indotto a concepire se stesso come uno “statale” in costante stato di
“agitazione sindacale”.
Insomma, un enorme macchina burocratica preoccupata innanzitutto di autoperpetuarsi, con buona pace del “senso” di tutto ciò.
Ma forse, come osservavo
all’inizio, non tutto il “male” viene per nuocere. A pieno regime,
l’informatizzazione dei libri di testo dovrebbe far sparire l’odiato
cartaceo entro pochi anni, così come tutto il denaro, sempre per i
soliti stregoni, dovrebbe finire in versione elettronica, facendo
sentire onnipotenti le banche e i loro privatissimi padroni. Tutto,
insomma, secondo la piega che questa umanità ha scelto di prendere, si
smaterializzerà, finendo in un computer, sotto il vigile controllo di
qualche “autorità” che lavora per renderci la vita “migliore”...
Ma al colmo di questa
parodia di vita, quando l’oppressione, l’angoscia e il non senso avranno
raggiunto il massimo grado sopportabile, ecco che, d’improvviso, l’energia elettrica potrebbe non esserci più, con tanti saluti ai libri e al denaro elettronico, anzi, ai libri e al denaro tout court.
E l’umanità potrà quindi tornare a vivere senza il fardello di una
“istruzione”, di una “cultura” inutile ed insensata, libera anche dalla
schiavitù del denaro, per ricominciare in un “nuovo inizio”.
Enrico Galoppini
FONTE: http://europeanphoenix.it/
Dopo l'annuncio dei nuovi libri di testo elettronici mi sono chiesta, per l'appunto, e il costo energetico chi lo sostiene?
RispondiEliminaVivo in Grecia in un posto isolato, scollegato da tutto. La corrente elettrica la produciamo con il fotovoltaico e son ben coscente di quanto consumano i diversi apparati elettronici (pc, ipad, ebook, etc). Non abbiamo generatore per "backupare", per cui razionaliziamo giornalmente i nostri consumi...e quando fa brutto (soprattutto di inverno) li azzeriamo.
Ho lavorato per anni come docente delle superiori nella scuola italiana e da quando è nato mio figlio mi interrogo sull'opportunità di mandarlo a scuola. Per lui si tratterà di scuola greca di paese, per cui le cose sono leggermente diverse da quelle descritte nell'articolo. I libri (cartacei) li offre la scuola (gratis!) e i maestri sembrano bravi...ma vedremo...per ora il nostro cucciolo studia tutto su piante ed animali del bosco, ci aiuta a coltivare l'orto e il frutteto, scopre la socialità interagendo con gli ospiti che arrivano dalle città italiane...